sabato 28 giugno 2014

La violenza in famiglia.

L'assassino non bussa alla porta... Ha le chiavi di casa!

Le violenze in famiglia sono un fenomeno tanto diffuso quanto poco conosciuto.

Da uno studio EURES del 2008, risulterebbe che in Italia si verifica un delitto in famiglia ogni due giorni: circa 170 omicidi sui circa 600 morti ammazzati per vari motivi che si contano ogni anno nel nostro paese, pari a un 28% del totale.

Nell'ambiente domestico, quindi, si uccide più di quanto riescano a fare mafia, camorra e 'ndrangheta messi insieme.

Secondo una ricerca americana,  il 21% degli accessi al pronto soccorso da parte delle donne è da attribuirsi ad episodi di violenza domestica metà dei quali da parte del marito, che più di metà delle violenze sessuali patite dalle donne ultratrentenni sono perpetrate dal partner.


Le cronache ci riportano quelli che sono i casi più eclatanti: soprattutto mariti che uccidono le loro consorti, più raramente il contrario, ma non mancano i casi di madri e padri che uccidono i loro figli piccoli, o figli ormai grandi che rivolgono la loro furia sui genitori anziani. Basta aprire il giornale la mattina per trovare facilmente qualcuno di questi casi.

Purtroppo si tratta di eventi molto difficili da prevenire e contrastare. Molto spesso tali tragedie sono alimentate dal disagio psichico e/o sociale, di fronte al quale la famiglia viene lasciata quasi sempre da sola, stante il vuoto di fatto dei servizi e delle istituzioni.
Ma al di là del clamore e lo sgomento suscitato dai fatti di cronaca, rimane una certezza tanto amara quanto evidente: questi delitti sono solo la punta dell'iceberg e rappresentano l'espressione estrema di un disagio largamente diffuso a cui nessuno vuole o può prestare attenzione.

Del resto, se state leggendo questa pagina, è molto probabile che voi stessi siate a conoscenza di situazioni famigliari dove potenzialmente o concretamente si corrono rischi fisici (e non solo).

Il fenomeno delle violenze in famiglia è estremamente complesso e variegato.
L'amplificazione mediatica di alcuni fatti di cronaca, oltre che la soggettiva  percezione di ognuno di noi di quanto sia diffuso il fenomeno, fanno parlare espressamente gli addetti ai lavori di emergenza sociale.
Sulle cause molto si è detto e molto si potrebbe dire, ma sul fenomeno, così come ci appare oggi, pesano sicuramente i mutamenti di ordine economico e sociale che si sono verificati negli ultimi decenni nel  nostro paese (e non solo il nostro).

Sia chiaro, le violenze in famiglia ci sono sempre state, ma le differenze fra la struttura della famiglia allargata del passato, e quella nucleare e isolata di oggi, potrebbero fornire alcune chiavi di lettura su quello che sta succedendo.
Se la famiglia patriarcale di un tempo era contraddistinta dall’impero del "padre padrone", in compenso la coesistenza nel nucleo di varie figure (nonni, suoceri, cognati, la cosiddetta "famiglia allargata") garantiva informalmente un certo controllo sui comportamenti e dunque anche sulla violenza esercitata da e contro i suoi membri.
Oggigiorno, invece, questa forma di il controllo sociale informale è pressoché scomparso, non sostituito da quello formale, ovvero dalle istituzioni.

Privata del supporto di quella rete di relazioni proprie del passato, pressata dagli eventi congiunturali e dalle tensioni interne, la famiglia "nucleare" reagisce con una sostanziale chiusura in se stessa enfatizzando l'impermeabilità del privato.
Questo isolamento rende di fatto più vulnerabili i componenti più deboli della famiglia, solitamente la donna e i figli minorenni, anche se non solo loro.
Quindi nell’organizzazione tradizionale i poteri del capo famiglia, anche se amplissimi, non erano arbitrari, essendo soggetti sempre ad una sorta di controllo comunitario.

In sostanza, nelle famiglie di oggi così occultate agli occhi altrui, gli abusi possono commettersi anche per anni senza che nessuno intervenga e, soprattutto, senza che ci sia modo anche normativo di agire dall'esterno, almeno finché un evento irreparabile non obblighi le istituzioni a intervenire.
Gli eventi estremi, vale a dire omicidi e ferimenti gravi, sono solo la punta di un iceberg.

La violenza domestica - intendendo con questa anche forme di violenza psicologica, economica o altre modalità non necessariamente "fisiche" - rappresenta un universo di situazioni che intrappolano milioni di persone, vittime e carnefici, in una rete di relazioni malate e degradanti, dalle quali è molto difficile liberarsi.

Anzi, è proprio il momento di ribellione, quando il debole di turno manifesta il desiderio di spezzare la catena, ad essere il più rischioso, quello capace di scatenare l'aggressione fisica, o peggio.

Uxoricidio.
In tutta la casistica dei casi estremi di violenza in famiglia, omicidi in primo luogo, l'uxoricidio occupa il posto più importante, perché nell'85% dei casi sono i mariti/conviventi a uccidere le mogli e non viceversa. In Italia, si calcola che ogni 96 ore venga uccisa una donna dal proprio marito/convivente o ex (2).
Secondo lo studio EURES, i motivi che spingono all'uxoricidio sono vari, ma sono riconducibili sostanzialmente a due tipologie: quella del possesso, più ancora della “vecchia” gelosia, e quella del costante maltrattamento da parte del marito che alla fine esita in omicidio, magari in conseguenza di un estremo tentativo di ribellione da parte della donna.  Va notato che proprio quando è la donna a decidere la separazione, quello è il momento per lei maggiormente a rischio di maltrattamento o peggio.
Anche se si attribuisce alla donna una presunta attitudine alla dipendenza, in buona parte degli omicidi all’interno del rapporto di coppia, è piuttosto l’uomo che non sa rassegnarsi alla perdita del cosiddetto ’"oggetto d’amore", ovvero, sempre secondo EURES,  il rapporto basato sulla possessività e l’autoritarismo assoluto da parte dell’uomo, lo rende di fatto incapace di accettare una decisione non sua e di perdere così una proprietà più che un affetto. E per questo può uccidere.

Uccisione del marito/convivente
Molto spesso l'uccisione del marito/convivente da parte della donna, sempre secondo EURES, non è altro che l'esito estremo di una lunga storia di maltrattamenti in cui, paradossalmente la vittima diventa vittima anche quando si trasforma in aggressore. Basti pensare che delle 46 donne presenti a metà degli anni Novanta nei “bracci della morte” delle carceri statunitensi, quasi tutte avevano ucciso il marito o il partner, e quasi tutte erano donne abusate, al punto che è oramai introdotta in USA una forma di insanity defense –pressappoco corrispondente alla nostra non imputabilità- basata appunto sulla battered woman syndrome (sindrome da donna picchiata).
Non di rado, quindi, i mariti vengono uccisi dopo anni o decenni di violenze, prevaricazioni, soperchierie, prepotenze di ogni genere che l’omicida ha subito da parte della “vittima”.

Violenze, percosse, maltrattamenti e abusi in genere.
In ogni caso, gli omicidi sono un fenomeno raro, mentre le angherie, le sopraffazioni, le violenze sessuali, quelle fisiche non letali sono una triste quotidianità.
Secondo l’OMS, che ha effettuato un’indagine in 48 Paesi, una percentuale tra il 10 e il 69% di donne ha dichiarato di aver subito un abuso fisico da parte del partner almeno una volta nella vita. Per l’Italia, l’ISTAT ha condotto una ricerca nel 2006, intervistando telefonicamente un campione rappresentativo di donne fra i 16 e i 70 anni, da cui risulta che 6 milioni e 743 mila Italiane sono state vittima di violenza fisica o sessuale nel corso della loro vita, il 31,9% della classe di età considerata. Il 14,3% delle donne ha subito almeno una violenza fisica o sessuale dal partner, e, se si calcolano anche gli ex partner, la percentuale sale al 17,3%.
Soprattutto, nella quasi totalità dei casi le violenze non sono denunciate.
Quindi, rispetto ai dati ufficiali,  questi reati sono ampiamente sottostimati, risentendo dell'ormai collaudato detto secondo cui “i panni sporchi si lavano in famiglia”.

Ma c'è un aspetto che va sottolineato.
Molto spesso, quando si parla di violenza domestica, esiste una difficoltà di riconoscimento della violenza stessa, come se una sorta di "effetto alone" rendesse meno rilevanti, meno evidenti i gesti di prevaricazione se a compierli è un membro della famiglia.
In altre parole, mentre è abbastanza facile dare "il giusto significato" a un occhio tumefatto, ai membri di una famiglia non è altrettanto evidente che certi comportamenti rappresentano comunque una forma di maltrattamento.
Anzi, paradossalmente certe forme di prevaricazione vengono apertamente confuse con il ruolo, con il carattere di una persona, magari portando chi le subisce a colpevolizzarsi per aver "provocato" la punizione dell'altro.
Quindi la violenza (magari solo verbale) perde il suo significato, mimetizzandosi nelle pieghe di quella che dal di fuori appare come "dialettica", eccesso di confidenza, avere una personalità autoritaria o attraversare un "momento di crisi".

Da un lato, quindi assistiamo alle difficoltà di riconoscimento della violenza familiare da parte delle "vittime" di turno, dall'altro il mancato riconoscimento delle conseguenze della violenza, creano le basi ad una sorta di assuefazione.

Da qui il percorso procede, seguendo una pista sempre più scoscesa, dove ogni giorno la dose viene rincarata. Dapprima piccole mancanze di rispetto, poi gli insulti, poi le mani addosso.
Perfino in questi casi la vittima, spesso, è portata a sminuire, con argomenti del tipo "lui è fatto così". Spesso c'è una forma di giustificazione dell'altro che passa per la propria colpevolizzazione, "forse non gli ho dato le giuste attenzioni, forse ho mancato".
La cosa può andare avanti così per anni, fino a passare il segno, fino a quando non si può più fare a meno di vedere.
Ma questa presa di coscienza, ormai tardiva, arriva su una situazione ormai fuori controllo, dove le parole e la trattativa hanno ormai perso significato. Siamo all'ultimo grado dell'escalation, tutto può esplodere.

La violenza è come un cancro: per avere delle chance di guarigione  occorre curarlo nelle fase iniziale.

Anche per quanto riguarda la violenza in famiglia, la regola è quella di riconoscere per tempo i segnali che possono portare a una deriva del rapporto ed intervenire quando ancora è possibile.
A volte con la rottura, la separazione, ma un conto è farlo quando il livello di tensione è ancora gestibile, un conto è farlo in un pericoloso stato di esasperazione, quando ogni accordo è impossibile.
In questi casi, l'unica opzione potrebbe essere la fuga, con tutti i pericoli e le difficoltà che comporta.


Nelle righe che seguono proverò a elencare alcune forme "tipiche" di violenza che spesso si riscontrano  nel rapporto famigliare.

Violenza psicologica.
Il reato di “Maltrattamenti in famiglia”, è modellato sul maltrattamento fisico; infatti, se anche l'art. 572 del nostro codice scrive genericamente di “maltrattamenti”, di fatto è più probabile che vengano punite quelle azioni da cui scaturisca una comprovata lesione fisica.
Invece, le forme di violenza sono molte, ed alcune difficilmente possono essere refertate in un pronto soccorso ospedaliero, a cominciare dalla violenza psicologica.
In questa categoria possono essere elencati comportamenti quali: apprezzamenti offensivi in pubblico o in presenza di amici, atteggiamenti di disistima, critiche avvilenti, tentativi di sminuire il ruolo del congiunto, ecc.
Spesso tali comportamenti possono essere evidenti anche tra i nostri “normali” conoscenti: quando si vive in famiglia, si conosce l’altro intimamente, si conoscono le sue debolezze, e quindi si può colpire con precisione, proprio dove fa male.
D’altra parte, violenza fisica e violenza psicologica spesso sono legate: nessun uomo si mette a picchiare la moglie dall’oggi al domani senza motivo apparente. La maggior parte dei coniugi violenti prepara prima il terreno e comunque la violenza psicologica può fare grossi danni anche da sola.

Isolamento.
La violenza psicologica si esercita anche con l’isolamento. Un esempio classico è il coniuge che ostacola apertamente la vita sociale dell'altro congiunto.
Tale atteggiamento può essere a volte sfumato, sotto forma di insofferenza per le amicizie dell'altro, fastidio per le attività "fuori casa", fino ad arrivare a veri divieti ultimativi o a costrizione fisica, non solo a uscire dalle mura domestiche, ma anche ricevere ospiti non graditi, arrivando anche a  controllare le telefonate.

Violenza economica.
La violenza economica consiste nel costringere l'altro a dover dipendere in tutto e per tutto per le spese, magari arrivando a "sequestrare" lo stipendio guadagnato dal congiunto.
Per assicurarsi di mantenere il potere finanziario, per esempio, l’uomo può cominciare con il verificare sistematicamente tutti i conti della moglie, rifiutare di dare abbastanza denaro oppure darlo con il contagocce, il tutto condito da osservazioni colpevolizzanti. Tutto ciò può spingersi fino al rifiuto di concedere alla propria compagna una carta di credito o un libretto di assegni
Qualche volta, in proposito, si trovano giudici accorti, così la Cassazione, VI Sez., con sentenza n. 6785/2000, ha stabilito che “la pervicace, sistematica condotta del coniuge, tesa a rendere la vita insopportabile al partner con l’umiliante e ingiustificata vessazione di esasperata avarizia, integra gli estremi del reato di maltrattamento in famiglia”.

Percosse e abusi fisici.
Le botte, gli schiaffi, sono il fenomeno più evidente ma non per questo meno soggetto alla spiccata tendenza a coprire, minimizzare, ignorare, negare, anche e soprattutto da parte di chi ne è vittima. Ancor di più quelle forme di abuso fisico più "soft" (mi si passi il termine) come gli spintonamenti, il tirare i capelli, torcere le braccia, o la semplice intimidazione fisica che magari non lasciano segni visibili sul corpo.

Violenza sessuale.
La violenza sessuale merita una trattazione a parte, ma è utile ribadire che, come rilevato da varie statistiche, il fenomeno è prevalente proprio tra le mura domestiche, piuttosto che ad opera di sconosciuti.
Eppure fino ad alcuni decenni fa,  lo stupro "domestico" era reputato impossibile dai giuristi, motivando l’impossibilità con il fatto che esisterebbe il cosiddetto “debito coniugale” (evito ogni commento), che affermavano:

«Poiché la costrizione, per costituire reato, dev'essere illegittima, così non è punibile il coniuge che costringa l'altro coniuge, mediante violenza o minaccia, alla congiunzione carnale secondo natura e in condizioni normali. Tra gli scopi del matrimonio, invero, è anche quello di fornire remedium concupiscentiae».

Purtroppo non è l'unico caso in cui legge e buon senso sembrano non comunicare tra loro.

Stalking.
Con lo stalking si indicano quei casi di appostamento, inseguimento, ricerca molesta di contatto e/o comunicazione che non di rado si verifica fra ex partner, che spesso ha alle spalle storie di violenza domestica, e talora evolve in modi particolarmente violenti.
Si tratta di un fenomeno particolarmente insidioso, in quanto lo stalking, come altre  forme di violenza non "fisica", non è facilmente dimostrabile in tribunale: di fronte alle violenze psicologiche non ci sono referti medici, verbali di polizia, testimoni del fatto.
Ne parleremo in modo più specifico in un prossimo articolo. 

Maltrattamenti e abusi su anziani.
Si tratta di un'altra tipologia di abusi che spesso non viene riscontrata e rilevata perché l'anziano stesso è incapace di segnalare quanto gli succede per paura o per imbarazzo o per deterioramento mentale.
Uno dei casi più segnalati è quello della eccessiva somministrazione di psicofarmaci per rendere più facile la gestione della persona, soprattutto nei casi di demenza.
Un altro caso frequente di abuso riguarda la gestione finanziaria dei beni dell'anziano, soprattutto nel caso della persona con scarse capacità cognitive.
In ogni caso, i maltrattamenti possono esprimersi sotto varie forme: abuso fisico, psicologico/emotivo, finanziario e semplicemente dimostrando negligenza, intenzionale o meno, verso i bisogni dell'anziano non più autosufficiente.

Maltrattamenti e abusi su bambini e minori.

Come nel caso degli anziani,  i maltrattamenti verso i minori possono essere di tipo privativo, come il non prendersi cura del bambino non lavandolo, non vestendolo adeguatamente, ignorare le necessità affettive, infliggere sofferenze psicologiche e fisiche, trascurare o ignorare le sue necessità mediche, trascurare le esigenze di istruzione e scolarizzazione, pretendere che il minore adegui il suo comportamento complessivo alla realizzazione di desideri dell'adulto che non considerano le sue reali capacità ed aspirazioni.
Oltre a questi tipi di abuso, possono verificarsi forme di violenza fisica vera e propria e persino abusi sessuali. 

Altre forme più rare.
Più rare, ma degne di essere menzionate sono fatti come il ferimento o l'uccisione dei genitori da parte de figli già grandi, per motivi che vanno dagli interessi economici, alla malattia mentale, passando per la tossicodipendenza ed altre ragioni minori.

Le arti marziali non funzionano!

Verso la fine degli anni '90 i ricercatori statunitensi del Rocky Mountain Combat Application Training (R.M.C.A.T.) hanno eseguito un interessante esperimento.
Costoro hanno dimostrato che la semplice conoscenza di un'arte marziale, per quanto completa ed avanzata, non comporta significative chances di sopravvivenza, quando l'avversario è un vero combattente da strada.

Gli autori dell'esperimento hanno proceduto dapprima convocando un gruppo di élite in qualche modo rappresentativo di varie arti marziali: Karate, Tae-kwon-do, Boxe,  Thai boxe, Kung Fu, Ju-jitsu, Kickboxing, ecc.

Ognuno di questi esperti, venne messo da solo al cospetto di un vero avanzo di galera, un autentico picchiatore da strada, equipaggiato con una speciale tuta imbottita in grado di proteggere tutto il corpo, testa compresa.
 

Le istruzioni date a ciascun partecipante, erano quelle di non attaccare, fintanto che l'energumeno, il quale si produceva in comportamenti ostili e pesanti insulti, non avesse a sua volta attaccato. In caso di attacco, però, sarebbe stato possibile reagire con tutte le forze e con qualsiasi tecnica.

I risultati sono stati sconcertanti.
Ad ogni occasione, il bandito da strada, dopo aver insultato pesantemente il soggetto, aveva attaccato improvvisamente avendo la meglio sul malcapitato. Solo in pochissimi casi il soggetto, ovvero un esperto di arti marziali, era riuscito a reagire tempestivamente ed in modo efficace. Le reazioni, quando ci sono state, sono state scomposte, impacciate e comunque non in grado di fermare la furia dell'attacco.

Cosa è successo, quindi?
Tutti quelli che che hanno preso le botte, a prescindere dal loro livello tecnico, hanno sperimentato il cosiddetto shock adrenalinico da stress emotivo. Di fronte al comportamento minaccioso, sicuro di sé, di un vero delinquente, e malgrado il contesto "controllato" dell'esperimento, gli interessati hanno avuto paura quanto basta per trovarsi in difficoltà a reagire:

Alcuni, pur percependo l'imminenza dell'attacco, hanno esitato quell'attimo che ha permesso all'assalitore di colpire per primo ed avere la meglio

Altri, accorgendosi di essere sul punto di essere colpiti, sono rimasti indecisi e confusi su quale tecnica usare, tra le molte conosciute, dando il tempo all'avversario di attaccare

Altri hanno trovato il tempo di reagire, ma in modo goffo, rigido ed inefficace, senza riuscire a fermare la furia dell'energumeno

Altri ancora sono rimasti semplicemente paralizzati ed incapaci di reagire, mentre quello gli metteva una mano in faccia e li sbatteva in terra

Perché tutto questo? 

Perché atleti eccellenti nelle arti da combattimento, capaci di performance straordinarie nelle rispettive palestre, hanno dato una prova così deludente? Molto semplicemente perché, pur essendo allenati sul piano tecnico, non conoscevano le loro reazioni di fronte alla paura e non erano addestrati ad affrontarle. Vi lascio trarre le conseguenze sulle reazioni di chi non ha la minima conoscenza ed esperienza di combattimento.


La paura.
La paura è un intensa emozione derivata dalla percezione di un pericolo, reale o supposto. Essa è un'emozione dominata dall'istinto che ha come obiettivo la sopravvivenza del soggetto ad una suffragata situazione pericolosa.
La paura irrompe ogni qualvolta si presenti una possibile minaccia per la propria incolumità e di solito è accompagnata da un'accelerazione del battito cardiaco e dal rilascio di un ormone (fra gli altri) chiamato adrenalina. Senza entrare nei particolari, l'adrenalina prepara il corpo a fronteggiare l'imminente pericolo, anche interrompendo ogni funzione che non sia utile alla sopravvivenza immediata.
Questo però presenta diversi inconvenienti: fisici, psicologici, motori e cognitivi.

Fra i tanti possiamo elencare:

  • dilatazione delle pupille;
  • perdita della visione periferica (effetto tunnel);
  • percezione uditiva alterata;
  • errata percezione del tempo e dello spazio;
  • respirazione accelerata o affannosa;
  • rigidità muscolare;
  • perdita della mobilità fine;
  • diminuzione della temperatura corporea;
  • blocco mentale;
  • amnesia;
Mano a mano che la frequenza cardiaca aumenta, il corpo subisce una serie di significativi cambiamenti fisiologici.
  • A 100 -110 bpm le abilità motorie complesse degradano considerevolmente. Le mani tremano, le dita perdono di precisione ed anche le azioni moderatamente complesse, come l'infilare una chiave nella serratura, diventano frustranti e problematiche.
  • A 115 - 145 bpm le abilità motorie complesse si disintegrano del tutto. I sistemi di risposta condizionata che si basano sulle abilità complesso-motorie come il karate, il kung-fu, il krav maga, o la kick-boxing, diventano semplicemente inutilizzabili.
Gli unici movimenti utilizzabili in un contesto di stress indotto da paura sono quelli chiamati “grosso-motori” e questo rende praticamente inutili le arti marziali tradizionali, a meno di non provvedere ad un lungo addestramento speciale.

Per contro i sistemi di autodifesa più efficaci al mondo si basano invece proprio sullo sfruttamento dei movimenti “grosso-motori”.

Le tecniche “grosso-motorie” sono semplici ed istintive, vengono apprese rapidamente ed applicate con facilità ed efficacia, anche nei momenti di maggior tensione, trasformando in questo modo gli inconvenienti dello stress e della paura in una risorsa per la sopravvivenza.
Ecco il "segreto" del nostro metodo!


L'evoluzione del rapporto vittima-carnefice nelle coppie.


La violenza fisica sulle donne è un fenomeno odioso e purtroppo sempre più diffuso, indice di un malessere sociale crescente. Ma ciò che va ben compreso, per intendere il fenomeno è che la violenza fisica è solo la fine di un processo che inizia molto tempo prima ed inizia con la violenza psicologica.

In generale, ogni fenomeno di violenza ha questo decorso: inizia con la violenza psicologica e termina con atti fisici: schiaffi, pugni, calci e altre manifestazioni di potenza che un carnefice esercita su una vittima.

Il nesso fra violenza psicologica e violenza fisica è ancor più forte nell’ambito della violenza domestica sulle donne. In questo caso il processo è particolarmente lento, corrosivo e crudele: inizia con forme sottili e quasi indistinguibili dal normale conflitto presente in ogni coppia, poi col tempo la violenza psicologica aumenta, diventa disprezzo e, lentamente ma inesorabilmente, muta in forme di violenza fisica.
Per capire, dunque, le motivazioni alla base della violenza fisica sulle donne è necessario individuare e capire quando inizia la violenza psicologica.

La violenza psicologica è difficile da distinguere da un normale conflitto di coppia. Ma ci sono indizi che possono aiutarci ad individuarla e questi sintomi sono strettamente collegati alle cause che, molto spesso, spingono un partner a trasformarsi in carnefice.

Il primo indizio che ci deve far subito alzare le orecchie è quando il nostro partner ci muove "critiche generalizzate".
Una "critica generalizzata" è molto diversa da una critica specifica o da una lamentela. In queste ultime il partner si riferisce ad un fatto ben specificato nel tempo e nello spazio (ad es.: «Oggi hai fatto la civetta con Luigi, potevi farne a meno!») e quindi è rivolta ad un ben specifico comportamento.
La critica generalizzata invece da un giudizio sulla persona in generale (ad es.: «Fai sempre la civetta con tutti...»).
Questa differenza è meno sottile di quanto si immagini ed è un campanello d'allarme che ci avverte che c'è qualcosa che non va.
La causa di queste generalizzazioni è spesso l’insicurezza che porta il partner a credere di aver compreso un tratto generale (negativo) della sua partner.

Senza esagerarne l'importanza, questo è comunque un primo, sottile indizio che può preludere alla formazione di un rapporto di carnefice-vittima. Nella maggioranza dei casi il primo stadio di violenza psicologica inizia con una serie di "critiche generalizzate” rivolte al partner.

Il passo successivo, che si verifica quando la vittima non ha preso alcuna contromisura nei confronti di queste critiche, consiste in una forma di aggressività nel dialogo.
Anche questo è solo un sintomo, ma se trascurato diventa il presupposto di un rapporto che sta prendendo un brutta piega. Non sempre questo stadio sfocia in forme gravi, ma in genere le forme gravi passano sempre da questo stadio.
Qui la violenza psicologica prende la forma del predominio nel discorso, del mettere a tacere ogni risposta, del rendere la vittima incapace di sostenere le sue ragioni. Il carnefice sta logorando la sicurezza della vittima, sta facendo in modo da convincerla di essere “incapace”, “stupida”, “sbagliata”; sta cercando di crearle dei sensi di colpa e di renderla inoffensiva sul piano della relazione.

D'ora in avanti il processo aumenterà la velocità, le reazioni della vittima saranno sempre più deboli, mentre al contrario la forza del carnefice aumenterà sempre di più. Egli ha ormai capito che la vittima è in suo potere e che può disporre di lei a suo piacimento. Può ingiuriarla, accusarla, ridicolizzarla senza che essa possa controbattere o reagire. Il disprezzo è uno stadio già più visibile: le continue offese, le continue manifestazioni di disgusto e di odio sono sintomi di una situazione ormai grave.

D'ora in avanti la violenza passerà sempre di più dal piano psicologico a quello fisico, anche se inizialmente questa sarà, per così dire, indiretta.
Gli insulti sempre più pesanti, si mischieranno con le minacce, le urla e i gesti inconsulti, anche se inizialmente saranno rivolti contro oggetti e suppellettili.

Ormai il carnefice ha raggiunto il suo pieno potere: la vittima sarà completamente incapace di reagire ed anzi, addosserà a se stessa le colpe del partner. Si convincerà che è lei che lo fa arrabbiare ed irritare, che è lei la causa della violenze che sta subendo perchè si comporta male, è cattiva, non lo comprende, non lo aiuta... E poi inizieranno le botte.

Il meccanismo della violenza psicologica è una spirale. Se da un lato c’è una carnefice sempre più aggressivo, dall’altro c’è una vittima sempre più “docile”. Infatti spesso le donne vittima di violenza si rendono conto troppo tardi di essere ormai diventate vittime e a quel punto credono che sia ormai tardi.

Hanno paura di subire un trattamento sempre più duro e, per evitare di peggiorare la situazione, credono sia saggio essere remissive, e cercano di “stare buone“.
Trangugiano offese e accuse, subiscono schiaffi e maltrattamenti, e rimangono convinte che la situazione migliorerà se loro sapranno essere “più docili”.

Il carnefice a questo punto è vittorioso: la vittima si è imposta da sola il ruolo, si addossa la colpa di ciò che accade.

Questo è il lavaggio mentale che il carnefice è riuscito a operare nella psicologia della vittima.

L'odioso fenomeno del mobbing.


In Italia da pochi decenni è entrato nel vocabolario comune il termine Mobbing, deriva dal termine inglese “to mob”, che vuol dire aggredire, accerchiare, assalire in massa. Si tratta di una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e prepotenti, ripetuti da parte di colleghi o superiori.

La vittima di queste vere e proprie persecuzioni si vede emarginata, calunniata, criticata: gli vengono affidati compiti dequalificanti, viene spostata da un ufficio all’altro, o viene sistematicamente messa in ridicolo di fronte a clienti o superiori.
Il responsabile di questi atti, utilizza, nei confronti della vittima, comportamenti che mirano al suo annientamento psicologico, sociale e professionale. Attorno alla vittima viene fatta terra bruciata cosicché quest’ultima si ritrova, nel proprio lavoro isolata ed emarginata dagli stessi colleghi. Per parlare di Mobbing il processo deve verificarsi almeno una volta la settimana per un minimo di sei mesi, ciò perché in genere, l’evoluzione del Mobbing é estesa nel tempo.

Le diverse ricerche fatte hanno permesso di identificare 6 fasi attraverso cui il fenomeno si sviluppa; queste sono precedute da una situazione di disagio in cui la persona rimane indietro con il lavoro, e nessuno lo aiuta.

Nella 1° fase si individua una vittima e verso di essa si dirige la conflittualità generale.
Nella 2° fase c’è l’inizio del Mobbing. Gli attacchi suscitano nel mobbizzato un senso di disagio e fastidio.
Nella 3° fase emergono i primi sintomi psicosomatici. La vittima comincia a manifestare dei problemi di salute e questa situazione può protrarsi anche per lungo tempo. Questi primi sintomi riguardano in genere un senso di insicurezza, l’insorgere dell’insonnia e problemi digestivi.
Nella 4° fase l’Amministrazione del personale, nota il fenomeno ma lo interpreta male. Il caso di Mobbing diventa pubblico e spesso viene favorito dagli errori di valutazione da parte dell’ufficio del Personale. Di solito le sempre più frequenti assenze per malattia insospettiscono l’Amministrazione del personale.
Nella 5° fase avviene un aggravamento della salute psico-fisica della vittima. Il mobbizzato comincia a sviluppare sintomi di malessere su diversi versanti: - psicosomatico (cefalea, tachicardia, dolori gastrici, dolori osteoarticolari, disturbi dell'equilibrio); - emozionale (ansia, tensione, disturbi del sonno, disturbi dell'umore); - comportamentale (anoressia, bulimia, farmacodipendenza).

Se il fenomeno di Mobbing è duraturo, oltre alla possibilità di sviluppare patologie organiche, i sintomi descritti possono evolversi nelle principali risposte psicopatologiche a situazioni stressogene: il disturbo dell'adattamento e il disturbo post-traumatico da stress. C’è anche chi soffre di forme depressive più o meno gravi e si cura con psicofarmaci e terapie alternative, ma hanno solo un effetto palliativo in quanto il problema sul lavoro non solo resta, ma tende ad aggravarsi

Nella 6° fase c’è l’esclusione dal mondo del lavoro. Questo è l’esito ultimo del Mobbing, ossia l’uscita della vittima dal posto di lavoro, tramite dimissioni volontarie, licenziamento, ricorso al pre-pensionamento o anche esiti traumatici quali il suicidio, lo sviluppo di manie ossessive, l’omicidio o la vendetta su chi ha effettuato il Mobbing. Ma v'è un'altro settore sul quale si riflettono le conseguenze del fenomeno e che porta con se un ulteriore aggravamento del malessere, si tratta dell'ambiente extralavorativo, ed in particolare quello familiare, esso rappresenta per il mobbizzato un'occasione di sfogo. Nello stesso momento in cui la vittima si sfoga, è come se delegasse i suoi famigliari a gestire la rabbia e la depressione.

La famiglia dapprima cerca di non farsi coinvolgere eccessivamente dai problemi del mobbizzato, fino ad arrivare ad un rifiuto dello stesso.
La famiglia protettrice e generosa improvvisamente cambia atteggiamento, cessando di sostenere la vittima e cominciando invece a proteggere se stessa dalla forza distruttiva del Mobbing.. La famiglia si richiude in se stessa, per istinto di sopravvivenza, e passa sulla difensiva. La vittima infatti è diventata una minaccia per l’integrità e la salute del nucleo famigliare, che ora pensa a proteggersi prima, ed a contrattaccare poi. Altro ambito implicato è quello della vita di relazione.
Gli effetti del mobbing si ripercuotono significativamente anche nella vita di relazione del soggetto mobbizzato, che progressivamente riduce i suoi contatti con l’esterno. Ciò avviene in genere per due fattori: la fine del ruolo lavorativo viene vissuta come caduta dello status sociale, traducendosi in una fuga dai contatti sociali tradizionali; la problematica del mobbing diventa pervasiva e totalizzante, determinando una progressiva caduta d'interesse per la vita di relazione.
In pratica il Mobbing coinvolge in modo pervasivo tutte le condizioni dell’esistenza di una persona, non solo quelle lavorative, ma anche quelle affettive, relazionali, familiari, sociali producendo un peggioramento di tutta la vita del soggetto e della famiglia.

A corollario di tutto ciò, il danno da Mobbing colpisce anche all’Azienda, sia per i costi materiali di assenze, malattie, cause, risarcimenti; sia per la ridotta produttività e la non ottimale utilizzazione delle risorse umane, sia per la perdita di immagine e di clima del benessere. Ciò viene pagato dall’intera società in termini di perdita culturale, di esperienze, competenze, creatività, ed in termini di economia.

Uscire da questo fenomeno devastante è possibile, per farlo si può procedere su diversi livelli, in primis su quello psicologico, recuperando la propria autostima e la volontà di uscire dal tunnel di profondo malessere che ne è derivato. Affidarsi a delle associazioni specializzate nel settore, che permettano di usufruire di un apporto sia psicologico che giuridico, può essere una via. In alternativa decidere di intraprendere un percorso terapeutico per uscire da uno stato di malessere profondo può essere l’inizio che fa emergere la volontà di riscatto e di seguito la richiesta di risarcimento per i danni subiti.
E’ molto importante assumere consapevolezza della possibilità di uscire dal ruolo di vittima, solo allora ci si può render conto che il carnefice può agire se c’è una vittima che gliene da la possibilità. Imparare a contrastare chi esercita Mobbing leva potere a quest’ultimo e riporta l’ex vittima a recuperare la propria autostima e ad avere un ruolo più attivo all’interno della sfera sociale.

E' possibile difendersi dalla violenza?

Le statistiche europee ed italiane degli ultimi anni evidenziano un incremento preoccupante di fatti di violenza, legati per lo più alla cosiddetta micro-criminalità con scopi di rapina, scippo e stupro, ma stanno aumentando anche i fenomeni di bullismo e le aggressioni dovute a “futili motivi” come può essere la lite per un parcheggio, per una precedenza mancata o per uno sguardo troppo prolungato. Sono sempre più diffuse inoltre le aggressioni contro le donne, con atti che vanno dalle "semplici" molestie, allo stalking, allo stupro e all'omicidio.

Non c'è nessuna ragione di vivere nella paura della criminalità e della violenza, tuttavia vi sono giustificati motivi per prendere le precauzioni necessarie per non farsi cogliere impreparati, o addirittura per non favorire eventuali azioni criminali nei nostri confronti.

La miglior forma di difendersi contro il crimine e la violenza è la prevenzione, cioè la messa in atto di una serie di misure, azioni, comportamenti e insegnamenti, utili a ridurre il rischio di essere coinvolti in simili eventi.

La prima prevenzione viene dalla conoscenza e purtroppo anche qui dobbiamo scontrarci con una desolante realtà: l'informazione è scarsa, frammentaria e spesso sbagliata o fuorviante. Le emozioni si mischiano alle polemiche e al pontificare pomposo di "tuttologi" ed esperti improvvisati che fanno più danni che altro, così il cittadino rimane confuso e senza indicazioni precise riguardo ad un sano e realistico comportamento preventivo.
Si confondono la sicurezza personale e l'autodifesa con l'acquisto di un'arma, di un cane feroce o sull'apprendimento di qualche tecnica "alla Karate-kid" che in realtà non sono altro che soluzioni parziali e valide solo in determinate situazioni e contesti.

Quello che manca è una cultura e una tecnica della sicurezza che permettano di affrontare il problema nella sua globalità e senza sconvolgere la nostra vita e le nostre abitudini e soprattutto senza farci vivere nella paranoia.

Esistono numerosi sistemi di auto-difesa, molti dei quali sono incompleti o parziali e quasi tutti basati su una approccio di tipo “fisico”. Arti marziali, armi più meno lecite, bombolette di spray uricante, cani feroci...
Questo tipo di approccio è, in realtà, poco adeguato, poco elastico, pericoloso e in sostanza fallimentare.
Ci sono delle situazioni (molto poche: meno del 10%) nelle quali è necessario il ricorso alla violenza per difendersi, ma nella stragrande maggioranza dei casi è possibile – e conveniente! - ricorrere ad altri sistemi, più sicuri ed efficaci.


Il Metodo S.I.A. (Sistema Integrato di Auto-protezione) è un sistema completo di autodifesa basato ampiamente sulla prevenzione e sull'utilizzo di tecniche non violente per prevenire, evitare e gestire qualsiasi situazione a rischio.

Anche nel S.I.A. è prevista un'efficace forma di autodifesa “fisica” ma come abbiamo visto essa è considerata come l'ultimo disperato tentativo di difendersi quando tutti gli altri mezzi hanno fallito.

Prima di arrivare all'uso della violenza è possibile fare moltissimo ed è quello che si imparerà nei nostri corsi.

Per maggiori informazioni, consultare le pagine elencate sulla colonna di destra.