lunedì 28 luglio 2014

Automobili ed autodifesa.

E' noto che il traffico automobilistico miete ogni anno migliaia di vittime solo in Italia. Se confrontiamo quante persone muoiono ogni anno nel nostro paese per incidenti stradali, con le persone che nello stesso periodo rimangono vittime di delitti, ci sarebbe da chiederci tutti per quale motivo rimaniamo così colpiti dal singolo omicidio, magari più clamoroso perché commesso dall'immigrato di turno, e rimaniamo indifferenti alla strage infinita che ogni giorno distrugge esistenze e famiglie intere.



Certamente una delle spiegazioni sta nella responsabilità dei mezzi di informazione nel creare clamore mediatico su fatti scelti con l'unico proposito di creare audience e non risposte socialmente utili: così il rumore orchestrato intorno alle bande di slavi dedite ai saccheggi in villa (qualche decina di casi in tutto) sembra coprire emergenze vere, quotidiane, fatte di migliaia di tragedie, dai costi sociali spaventosi, ma ai quali nessuno sembra potere o volere dare una soluzione.

Tornando a noi, e ricordando l'esempio degli incidenti stradali, se avessimo un minimo di coerenza, dovremmo andare nel panico ogni volta che entriamo in macchina, e non quando incontriamo qualcuno nell'androne buio sotto casa (il quale magari se ne sta andando tranquillo per i fatti suoi).
Invece avviene il contrario. Perché?

Uno dei motivi è certamente il suddetto imprinting mediatico nel nostro immaginario emotivo, ma ciò non basta a dare una risposta esauriente.

Quando guidiamo, siamo solitamente consapevoli dei pericoli che corriamo, ma questo non ci rende particolarmente ansiosi, invece camminare da soli in una via poco illuminata, ci crea spesso un po' di patema.
Un motivo c'è ed è nei termini della nostra capacità (percepita) o meno di far fronte ad un eventuale imprevisto.


Facciamo un paragone, anzi due.

Primo paragone .

  • Come si sente l'allievo medio di scuola guida quando per la prima volta alza il pedale della frizione e sente la macchina che si muove? 
  • Come si sente l'individuo medio quando, da solo in una via buia, viene avvicinato dal solito cristone rasato, zeppo di piercing, con una svastica tatuata sulla fronte, e con vistosa cicatrice sulla faccia?

Secondo paragone.
 
  • Come si sente lo stesso allievo, dopo due anni che ha conseguito la patente, guidando tranquillamente sulla stessa strada?
  • Come si sente l' individuo di prima, sopravvissuto al primo episodio, quando incontra un branco di ragazzotti, armati di mazze, chiaramente in cerca di qualcuno a cui fare la festa?

La risposta, nel caso del primo paragone, è che entrambi se la passano piuttosto male: l'adrenalina (un modo erudito per dire la semplice fifa!) si fa sentire in tutti i suoi effetti e, puntualmente, il primo dei due riuscirà a spegnere il motore con un brusco sobbalzo (mandando su tutte le furie l'istruttore), mentre il secondo balbetterà una risposta incoerente al sopravvenuto, che chiede semplicemente indicazioni, perché si è perso.

Nel caso del secondo paragone, invece, la risposta è che l'ex allievo se la passa ovviamente meglio di quell'altro signore un po' sfigato. Perché?
Forse l'ex allievo di scuola guida non corre pericoli? A volergliela tirare, potrebbe uscire da una traversa un TIR e stritolare auto e conducente...
Esagerato? A guardare i numeri degli incidenti in Italia non mi sembra per niente irreale!
D'altro canto, i ragazzi muniti di mazze forse stanno semplicemente recandosi a una partita di baseball e sono per questo un po' eccitati...

Lasciando da parte altre considerazioni, c'è un aspetto qualitativo a fare la differenza tra i due protagonisti: uno dei due, il guidatore, ha o ritiene di avere il controllo della situazione, il passante per strada, dal canto suo, proprio no.
 
Cosa significa avere il controllo della situazione?
Significa sapere dove si è e sapere cosa si deve fare in quel momento.

 
Chi guida l'auto sa di correre dei rischi, ma ha sviluppato conoscenze tecniche (la guida del mezzo), comportamentali (le norme del codice) e istintive (automatismi), che gli consentono di avere le reazioni giuste di fronte a qualsiasi evenienza (o quasi).
 
L'altro, invece, oltre a essere sfigato (il che rappresenta di per sé una colpa) non sa cosa ci fa lì, e non sa bene che cosa deve fare per togliersi dai guai.
 
A proposito, c'è un altro pericolo mortale per chi guida.
Non è la velocità, o l'ubriachezza, come i media e chi per loro si ostinano a ripetere, ma la distrazione, l'imperizia, la sottovalutazione del rischio.
 
Da qui la necessità per chiunque di avere sempre il giusto grado di attenzione e di valutazione di ciò che sta facendo. Ecco a cosa serve un corso di autodifesa!

domenica 27 luglio 2014

AUTODIFESA E TERZA ETA': UN BINOMIO POSSIBILE?




Diventare anziani significa subire un graduale, ma inesorabile, deterioramento del proprio fisico. I muscoli si afflosciano e perdono di tonicità, le ossa diventano sempre più fragili, la pelle più delicata, i riflessi più lenti ed anche il cervello comincia a perdere l'originario vigore.
Si cominciano a dimenticare le cose, le date, le persone, si fa fatica a concentrarsi. L'avanzare dell'età comporta anche la comparsa di numerosi acciacchi e malattie più o meno croniche e più o meno gravi: il cuore comincia a perdere colpi, le giunture scricchiolano, la schiena comincia a dare i primi dolori, gli occhi soffrono di cataratte, i polmoni “fischiano”, subentra una certa sordità...

Chi è fortunato di arrivare alla vecchiaia deve prendersi carico del progressivo disfacimento del suo corpo fisico, ma anche rendersi conto del fatto che questo lo rende una vittima ideale per delinquenti e prepotenti.
Nel mondo animale i predatori non puntano quasi mai sugli esemplari adulti e vigorosi, ma su quelli più deboli: i cuccioli, i malati e i vecchi, tanto più se questi sono isolati dal resto del branco. Lo stesso succede, purtroppo, anche nell'animale umano.

Oltre al decadimento fisico, ci sono anche altri fattori che rendono l'anziano una vittima ideale e sono di ordine sia psicologico che culturale.
In primo luogo, proprio a causa dei fattori elencati prima, l'anziano tende a diventare abitudinario. Passare per le stesse strade, incontrare le stesse persone, entrare negli stessi locali, ripetere gli stessi gesti e le stesse azioni automaticamente, quotidianamente e alla stessa ora, sono tutte abitudini che rassicurano l'anziano e gli danno stabilità e certezze.
Purtroppo, però, questo aumenta anche le probabilità di trasformarlo nella vittima di un crimine. Prima di agire, un predatore studia sempre le sue vittime, alla ricerca del momento e del luogo migliore per agire e nel caso di una vittima abitudinaria il suo “lavoro” verrà enormemente facilitato.

Un altro fattore che facilita i criminali è la fiducia quasi incondizionata degli anziani nei riguardi del prossimo. Ai loro tempi la criminalità era molto meno diffusa e c'erano rispetto e venerazione per gli anziani. Molti raccontano che uscivano tranquillamente di casa senza chiudere a chiave, sia perché la criminalità era meno diffusa, sia perché le persone si conoscevano e interagivano molto di più di adesso.
Al giorno d'oggi, negli enormi ed anonimi palazzoni di città, capita spesso di non conoscere nemmeno il proprio vicino d'appartamento e si vive nel paradosso di essere soli in mezzo alla massa.

Infine l'anziano, di solito, è anche una persona che passa molto tempo da sola: i figli si sono sposati o trasferiti, hanno la loro vita, la loro famiglia e i loro problemi e solo di tanto in tanto passano a trovare nonni, zii e genitori. I ritmi stressanti della società moderna, inoltre, lasciano sempre meno tempo libero alle persone, riducendo così ulteriormente il tempo che si dedica agli anziani.

Come dico sempre durante i miei corsi, il criminale cerca sempre una vittima, mai un avversario e per tutti i motivi che abbiamo visto l'anziano è la miglior vittima possibile.
I crimini più diffusi contro gli anziani sfruttano proprio le loro tipiche “debolezze” e sono: le truffe, gli scippi e le rapine. Queste ultime, purtroppo, sono in costante e preoccupante aumento e non sono rare quelle dall'esito mortale. In ogni caso, il trauma psicologico che subiscono tutte le persone che hanno subito un crimine violento, si amplifica enormemente negli anziani.

In questi crimini non parla quasi mai di grandi bottini e quasi sempre si tratta di piccole cifre, ma alla fin fine si tratta di “soldi facili” e i criminali non li disdegnano di certo, specialmente in questi tempi di crisi economica e sociale.

Molti anziani, rendendosi conto della loro inevitabile debolezza, diventano gradualmente dei paranoici. Non escono quasi mai, tengono chiuse porte e finestre e passano il resto della loro esistenza a chiudere chiavistelli e a sospettare di tutto e di tutti. Questo stato psicologico viene inoltre amplificato dalla solitudine.
In questi casi il rischio di subire crimini è praticamente azzerato, ma il prezzo che si paga è scandalosamente alto: trascorrere gli anni della vecchiaia in un'infernale prigione psicologica costruita da noi stessi.


Dopo quello che si è visto fin'ora è strano, dunque che praticamente non esistano corsi di autodifesa riservati alle persone anziane, da un punto di vista logico sarebbero quelli che ne avrebbero più bisogno!

Il punto è che in Italia, quando si parla di autodifesa, si intende solamente la parte “fisica” di questa che è strettamente legata al mondo scintillante del fitness-businness e questo rende inevitabilmente “poco appetibili” gli anziani.
A questi non si potranno insegnare le magiche tecniche alla “Capitàn Karate” e nemmeno proporgli il programma di tiro operativo, quello di pesistica o quello di sopravvivenza nella giungla. Non parliamo poi delle miracolose pillole dimagranti e dei fantastici integratori alimentari concentrati, non voglia il cielo che gli procurino un infarto che si rischia di chiudere la baracca! E poi non si può riempire la palestra di vecchi tremanti e claudicanti, dove va a finire l'immagine? In un club rispettabile si devono vedere solo giovanotti nerboruti e fanciulle pettorute, non dentiere e pannoloni. Quindi... Anziani? No, grazie!

Eppure l'anziano può fare molto per tutelare la sua sicurezza e la sua incolumità, basta solo introdurre delle sane abitudini, alcune facili norme comportamentali e cominciare a guardare il mondo con un'altra ottica. Questo, non solo ridurrà drasticamente il rischio di subire dei crimini ma, come si vedrà durante il corso, migliorerà anche la qualità della vita.

martedì 22 luglio 2014

Predatori e prede.

Comportandosi da preda, si incita il predatore ad agire. 
[Vecchio proverbio siberiano]



La stragrande maggioranza delle aggressioni e degli episodi violenti in genere, è favorita e spesso provocata proprio dalle vittime, confermando la regola empirica ben nota negli ambienti dell'autodifesa e cioè:

se da un lato l'aggressore ha scelto la propria vittima, questa, dal canto suo, si è fatta scegliere!

Ci sono persone che attraversano da sole e spensieratamente i parchi di notte, magari con l'IPod che pompa nelle orecchie musica a tutto volume.
Ci sono donne che si avventurano sole solette in certi parcheggi deserti, sostando poi davanti alla macchina chiusa e frugando nella borsa, in modo inconcludente, alla ricerca delle chiavi.
Ci sono le coppiette che si appartano in certe viuzze da film horror, confidando nell'effimera protezione dei finestrini della loro auto. ..

Non basta, però, evitare questi comportamenti "sbarazzini", spesso la futura vittima non osserva il contesto e comunica con gli altri in modo inappropriato, con insistenze inutili o con recriminazioni capaci solo di innalzare la tensione, non accorgendosi del fatto che l'interlocutore sta diventando pericoloso come una bomba innescata.

È lo scenario, questo, di molte liti familiari o condominiali, laddove la conoscenza pregressa e la familiarità acquisita sembrano mettere in secondo piano il fatto che rabbia, frustrazione o interessi rappresentano pur sempre un movente capace di offuscare la coscienza e, specialmente a tavola davanti a un bicchiere di vino, di compromettere il già fragile autocontrollo.

È anche la scena degli automobilisti che si fermano a litigare per il parcheggio o la precedenza. L'impuntarsi, petulanti, sulle “questioni di principio”, il “dare lezioni”, il “fargliela vedere”, il “far valere i propri diritti”, il “lei non sa chi sono io” e tutti quegli impuntamenti dovuti a quel piccolo egoista, stupido e vanesio che c'è in tutti noi: l'ego.

La falsa sicurezza di vivere in una "società civile", unita alla sottovalutazione dell'altro, della situazione e del contesto, può giocare brutti scherzi. Questo dicono le cronache.

Scorrendo le esperienze e le testimonianze che ho raccolto, in tutti i casi che sono degenerati in aggressione la persona aggredita aveva commesso uno o più di questi errori: 

1) non aveva valutato correttamente il contesto o l'ambiente fisico in cui si trovava;
2) non aveva notato, oppure non aveva dato peso, ad alcuni elementi sospetti del comportamento del futuro aggressore;
3) si era lasciata coinvolgere in un gioco senza uscita fatto di accuse, recriminazioni e rivendicazioni;
4) aveva adottato atteggiamenti che hanno facilitato, o peggio invogliato, un soggetto determinato ad aggredire;
5) oppure, spesso, aveva "sapientemente miscelato" gli elementi precedenti ottenendo così un cocktail perfetto per diventare una vittima ideale.

A posteriori, la conclusione tratta da tutte le vittime è che "ci si è trovati nel posto sbagliato, al momento sbagliato e con la persona sbagliata" ma, in realtà, questa conclusione è totalmente sbagliata e fuorviante. Sono i nostri comportamenti, il nostro atteggiamento, il nostro modo di parlare e di guardare le persone, a predisporci alle altrui reazioni.

Saper fare la cosa giusta nel momento giusto è chiaramente l'elemento chiave di ogni forma di successo, così come della sopravvivenza.

Il punto è che, tranne pochi comportamenti innati, quasi tutto ciò che dobbiamo fare o dire per tutelare la nostra sicurezza deve essere in qualche modo appreso. Ne consegue, dunque, che tutti i comportamenti utili a tenerci fuori dai guai devono essere imparati.  QUESTA è la vera "autodifesa".

Quello che ci serve quindi è una vera e propria “Tecnica della Sicurezza” da cui scaturiscano comportamenti adeguati e l'incentivo a sviluppare certe capacità che da sole possono realmente aiutare la persona a salvaguardare se stessa. Tra queste, fondamentali sono:
  • la capacità di comunicare correttamente;
  • la capacità di osservare l'ambiente e le persone che ci stanno attorno;
  • la conoscenza di dove, come, quando e perché avvengono le aggressioni.
La vera prevenzione si attua da una parte imparando a mettersi in relazione con gli altri (eviterete così di cadere vittime di provocazioni o di essere voi stessi i provocatori del vostro aggressore), dall'altra evitando di mettersi in quelle condizioni di svantaggio che vengono sfruttate specialmente dai cosiddetti "criminali abituali" per scegliere le loro vittime.

L'aggressore cerca quasi sempre una vittima e non uno scontro leale, per questo la sorpresa e “l'ignoranza” sono i suoi principali alleati.

Prevenire significa saper "leggere" il contesto, la situazione e l'ambiente fisico, percependo il pericolo che può essere insito in loro e comportandosi di conseguenza. 

Molte volte, chi ha subito un’aggressione racconta di come gli eventi siano precipitati in modo rapido ed imprevedibile. .. In realtà, non è così: troppo spesso sono mancate delle chiavi di lettura in termini di attenzione al contesto e ai “messaggi” inviati dal futuro aggressore.

Conoscere queste chiavi di lettura, può fare la differenza tra il riuscire a risolvere un momento critico in modo incruento, secondo una logica preventiva, oppure essere coinvolti in un episodio di violenza.

sabato 19 luglio 2014


SOE SYLLABUS: Lessons in Ungentlemanly Warfare, World War II (Public Record Office Secret History Files)

Nella Seconda Guerra Mondiale, dopo la disastrosa campagna di Francia, la Gran Bretagna non aveva più un esercito. La gran parte degli uomini fu salvata grazie a quella specie di miracolo che fu l'evacuazione di Dunkerque, ma la gran parte delle armi e delle attrezzature andò perduta.
L'unica sua salvezza fu di essere un'isola e di avere ancora una Marina e un'Aviazione intatte, ma i servizi segreti davano già per scontata un'imminente invasione, denominata dai tedeschi "See Loewe", Leone Marino.

Le simulazioni eseguite dagli alti comandi britannici rivelarono una desolante verità: non solo l'invasione aveva ottime probabilità di riuscita, ma in tal caso l'Esercito britannico non avrebbe avuto nessuna chance di fermarla.

Churchill organizzò in fretta e furia un piano di resistenza "dietro le linee", per combattere gli invasori tedeschi con sabotaggi e tattiche di guerriglia, basato su un esercito segreto e clandestino chiamato "Home Guard". Hitler, però, commise il suo più grande errore e trascurando la Gran Bretagna si rivolse ad est, dando inizio all'Operazione Barbabrossa, ovvero l'invasione della Russia Sovietica.

Gli inglesi ne approfitarono per "rifiatare", ma l'esercito era ancora in ricostruzione e non erano in grado di svolgere operazioni di grande respiro. Fu così che, sfruttando l'esperienza accumulata durante l'organizzazione della Home Guard, gli inglesi decisero di iniziare a colpire la Germania nazista attraverso un piccolo numero di spie e sabotatori, con l'incarico aggiuntivo di organizzare, addestrare e guidare la resistenza nei paesi occupati dai nazisti. Venne perciò costituito il S.O.E. che sta per Special Operations Executive.
 


Ora il governo britannico ha reso pubblici una serie di documenti fino ad ora coperti da Segreto di Stato mettendo a disposizione di storici e appassionati molte nuove informazioni, soprattutto in merito alla formazione e all'addestramento degli agenti.
Questo libro, riccamente illustrato, comprende tutti i manuali di formazione e addestramento originali, utilizzati dal S.O.E. durante la seconda guerra mondiale.
 
Il libro include inoltre le lezioni del colonnello William Ewart Fairbairn e i programmi di insegnamento del suo Gutterfighting nonchè i corsi di Silent Killing (uccisione silenziosa), in seguito insegnati allo O.S.S. statunitense, sia da Fairbairn che dal suo allievo, il colonnello Rex Applegate.

mercoledì 16 luglio 2014

Domande e risposte sullo stalking.


- Ti senti perseguitata con telefonate, messaggini, minacce, molestie e qualsiasi altro atteggiamento che ti mette a disagio?

Potresti essere vittima di "stalking". Con il termine “stalking” si intende un insieme di comportamenti tramite i quali una persona affligge un’altra con intrusioni e comunicazioni ripetute e indesiderate, a tal punto da provocargli ansia o paura.

Queste condotte indesiderate possono comprendere:
lettere, telefonate, l’invio di sms ed e-mail, non solo rivolte direttamente alla vittima ma anche contro famiglia, amici e colleghi; comportamenti dello stalker diretti ad avvicinare in qualche modo la vittima. Tra questi i più diffusi sono i pedinamenti, il presentarsi alla porta dell’abitazione o gli appostamenti sotto casa, recarsi negli stessi luoghi frequentati dalla vittima o svolgere le stesse attività.

- Chi è lo stalker?

Esistono 5 tipi di stalker:

  1. Il rifiutato - lo stalker può essere un ex-partner, non accetta la fine della relazione e fa di tutto per recuperare il rapporto precedente o per vendicarsi per essere stati lasciati. Inizialmente si pone come una persona distrutta che non riesce a stare senza la sua ex e per questo la tempesta di messaggi, di telefonate, tentando di avvicinarla, poi però si mostra anche aggressivo sia verbalmente sia fisicamente e può in escalation arrivare a scegliere l’omicidio come il modo estremo per sancire il controllo sulla vita altrui.
     
  2. Il cercatore di intimità - alcuni stalker prendono di mira conoscenti, o anche sconosciuti per stabilire con loro una relazione sentimentale. Una parte di questi soggetti ha semplicemente gravi difficoltà nell’instaurare una  relazione normalmente. Non sono soggetti particolarmente pericolosi anche se il loro comportamento procura un forte fastidio in chi lo subisce.
     
  3. L’incompetente - sono corteggiatori falliti che non riescono ad entrare in sintonia con il partner desiderato, e anzi lo considerano come un oggetto. L’incompetente pensa di avere il diritto di ottenere ciò che vuole e se non lo ottiene diventa maleducato, aggressivo, manesco. Il forte bisogno di possesso e di conquista lo porta a considerare l’altro come un semplice oggetto. Le molestie durano per un periodo abbastanza limitato nel tempo e spesso lo stalker desiste con una vittima per passare ad un’altra.
     
  4. Il rancoroso - questi stalker molestano persone allo scopo di vendicarsi per qualche torto reale o presunto. L’obiettivo è spaventare la vittima e danneggiarla in vari modi. Considera giustificati i propri comportamenti, da cui trae confortanti sensazioni di potere che hanno poi l’effetto di rinforzarlo inducendolo a continuare. Non sono rarissimi i casi di omicidio perpetrati da questa tipologia di stalker.
     
  5. Il predatore - altri ancora mettono in atto condotte di stalking (soprattutto pedinamenti) nelle fasi preparatorie di un’aggressione di solito di tipo sessuale. Prova soddisfazione e senso di potere nell’osservare la vittima di nascosto, nel progettare l’agguato senza minacciare o lasciar trapelare in anticipo le proprie intenzioni. All’interno di questa tipologia possono ricadere gli stupratori seriali. Sono persone potenzialmente pericolose anche se non sempre trasformano le loro intenzioni in atti. Non è una tipologia di stalker fortunatamente diffusa.


- Cosa differenzia lo stalking da un comportamento ‘normale’?
  • l’attore della molestia, lo stalker, agisce nei confronti di una persona che è designata come vittima in virtù di un investimento ideo-affettivo, basato su una situazione relazionale reale, oppure parzialmente o totalmente immaginata;
  • lo stalking si manifesta attraverso una serie di comportamenti basati sulla comunicazione e/o sul contatto, ma in ogni caso connotati dalla ripetizione, insistenza e intrusività;

la pressione psicologica legata alla “coazione” comportamentale dello stalker e al terrorismo psicologico effettuato, pongono la vittima in uno stato di allerta, di emergenza e di stress psicologico. Questi vissuti psicologici possono essere legati sia alla percezione dei comportamenti persecutori come sgraditi, intrusivi e fastidiosi, che alla preoccupazione e all’angoscia derivanti dalla paura per la propria incolumità.


- Quali sono i pericoli connessi allo stalking?
La vita della vittima di stalking può divenire particolarmente difficile: molte persone, per timore di ricevere nuove molestie, hanno paura di uscire di casa,
non riescono a mantenere il proprio lavoro, non sono in grado di instaurare nuove relazioni e quindi sono incapaci di salvaguardare la propria quotidianità.
La ricerca ha dimostrato che molte vittime, in seguito a tali esperienze, soffrono di ansia, depressione o disturbo post-traumatico da stress.
Esiste anche il pericolo, pur limitato, che la vittima possa subire vere e proprie forme di violenza da parte dello stalker. Questo, in particolare, accade laddove lo stalker sia un ex-partner.


- Quanto è diffuso lo Stalking?
Secondo l’indagine realizzata dall’Istat (2007) su “La violenza e i maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la famiglia – anno 2006” con un campione rappresentativo di 25 mila donne fra i 16 e i 70 anni, il 18,8% ha subìto violenza fisica o sessuale o atti persecutori da parte di un ex partner. Sono quasi il 50% delle donne vittime di violenza fisica o sessuale ad aver subìto anche comportamenti persecutori. Il 68,5% dei partner ha cercato insistentemente di parlare con la donna contro la sua volontà, il 61,8% ha richiesto ripetutamente appuntamenti per incontrarla, il 57% l’ha aspettata fuori di casa o a scuola o al lavoro, il 55,45% ha inviato messaggi, telefonate, e-mail, lettere o regali indesiderati, il 40,8% l’ha seguita o spiata e l’11% ha adottato altre strategie.
Lo stalking diventa reato per la prima volta nel 1990 in California, dopo che un’anchorwoman fu uccisa da un suo ammiratore. L’attenzione nei confronti del fenomeno poi è via via aumentata a seguito dell’emergere degli atteggiamenti mitomani nei confronti di personaggi pubblici, dello spettacolo, politici, perseguitati da persone spesso sconosciute. Fra il 1990 e il 1993 tutti gli Stati degli Usa hanno approvato una propria legge antimolestatori. In Europa, attualmente, ci sono otto Paesi che hanno una normativa specifica contro lo stalking (Austria, Belgio, Danimarca, Germania, Irlanda, Malta, Paesi Bassi, Gran Bretagna). La pena prevista cambia da nazione a nazione (le pene massime vanno dai 6 mesi di reclusione previsti a Malta ai 10 anni contemplati dalla normativa tedesca).
In Italia, solo da pochi anni lo stalking è diventato reato. E’ stato introdotto nel codice penale (art. n. 612 bis) con il decreto legge del 24 febbraio 2009, poi è stato convertito in legge (n. 38 del 25 aprile 2009). La nuova legge per porre fine, nel più breve tempo possibile, agli atti persecutori, dà la possibilità alla persona offesa dal reato, fino a quando non decide di querelare il suo persecutore, di esporre i fatti all'autorità di pubblica sicurezza, avanzando una richiesta al Questore di ammonimento.
Il Questore, assunte se necessario informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, ove ritenga fondata l'istanza, ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge e redigendo processo verbale. In particolare, l'art. 7 della Legge 38/09 prevede che "Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo tale da cagionare un perdurante e grave stato d'ansia o di paura ovvero ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
La pena è aumentata se il fatto è commesso da coniuge legalmente separato o divorziato o da persona che sia legata da relazione affettiva alla persona offesa. La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all'art. 3 della legge 5/2/1992 n. 104, ovvero con armi o da persona travisata. Il delitto è punito a querela della persona offesa.
Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. Si procede tuttavia d'ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all'art. 3 della legge 5/2/1992 n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio".


Conseguenze psicologiche dello stalking
Diversi studi in tutto il mondo hanno evidenziato come l’esperienza di stalking produca spesso danni significativi e addirittura veri e propri disturbi psichiatrici.
Alcuni studi hanno rilevato l’insorgenza di depressione, ansia e disturbi post-trumatici da stress tra le vittime di stalking.
Per disturbo post-traumatico da stress si intende un complesso di sintomi conseguenti ad un evento traumatico di particolare rilevanza. Tra questi:

  • il rivivere il trauma sotto forma di pensieri, ricordi e sogni ricorrenti e intrusivi;
  • l’iperreattività fisiologica, che si manifesta ad esempio con un aumentato stato di allerta;
  • l’evitamento di stimoli collegati all’evento traumatico.

Altre ricerche  hanno rilevato, quali conseguenze dello stalking, sostanziali cambiamenti negativi della personalità; in particolare, quelli descritti con maggiore frequenza sono stati l’aumento della prudenza, della sospettosità, dell’ansia e dell’aggressività.

Le conseguenze psicologiche quindi maggiormente riscontrate sono:
  • Depressione.
  • Ansia.
  • Sospettosità.
  • Disturbo post traumatico da stress.


Altre conseguenze dello Stalking
Oltre agli effetti psicologici, vi sono altre conseguenze comuni nelle vittime di
Stalking. Molte mostrano una limitazione della vita sociale. Quasi sempre sono costrette a cambiare numero di telefono ed indirizzo di posta elettronica.
Alle volte le vittime sono costrette a cambiare lavoro, alcune devono anche cambiare casa o residenza. In alcuni casi, lo stalking compromette un rapporto sentimentale in corso, determinandone la fine.


- Cosa puoi fare se sei vittima di uno stalker?

Non esistono facili soluzioni al problema dello stalking, dal momento che non tutte le situazioni sono uguali.

Prima di tutto ricordati che le strategie rivelatesi utili per combattere lo stalking sono molteplici, ma non tutte sono adatte a tutte le situazioni. Ne consegue che le vittime dovranno individuare gli strumenti più idonei alla propria particolare situazione.

Un punto di partenza nella lotta allo stalking è quello di rendere le vittime consapevoli. A volte, invece, si tende a sottovalutare il rischio e a non prendere le dovute precauzioni.

Alcuni effetti dei crimini violenti.

I crimini violenti, quali possono essere un'aggressione a scopo di scippo, di rapina, di stupro o per altri motivi, sono una realtà improvvisa, scioccante, brutale e pericolosa.
Mi scuso in anticipo se in alcuni casi userò un linguaggio volgare e degli esempi sgradevoli, ma la violenza E' volgare e sgradevole.
Immaginate questa scenetta.

Vi state dirigendo verso casa, pensando alla doccia che vi farete, alla pagella dei figli o alle bollette da pagare quando qualcuno sbuca improvvisamente dal buio, vi sbatte violentemente contro il muro e puntandovi un coltello alla gola vi urla:

«Ti ammazzo, stronzo! Dammi tutti i soldi o ti ammazzo! Ti ammazzo, hai capito? Ti taglio la gola!».

La sorpresa, la violenza improvvisa, le urla e la fredda lama del coltello che vi sentite sulla gola avranno il potere di far prendere una brutta “strizza” a chiunque, anche alle persone più calme e coraggiose.
La scarica di adrenalina vi farà drizzare i capelli in testa, i battiti del cuore saliranno a una frequenza da scoiattolo e sarete completamente alla mercè del criminale.
Altri sintomi tipici sono: tremore, sudorazione, ansia, percezione uditiva alterata, errata percezione del tempo e dello spazio, blocco mentale, perdita della memoria e diverse altre “piacevolezze”, fra le quali la più umiliante, specialmente per i maschietti, è la perdita di controllo di vescica e sfinteri, cioè ve la fate letteralmente addosso.
Degno di nota, inoltre, uno degli effetti meno conosciuti dello shock e della paura e cioè la perdita della “motilità fine”, cioè della capacità di eseguire il benchè minimo movimento complesso (come ad es. infilare le chiavi nella serratura) e questo spiega perché dei provetti campioni di arti marziali siano finiti pestati a sangue da un “bulletto di periferia” qualunque, senza alcuna preparazione fisica e tecnica.

I criminali conoscono benissimo questi effetti paralizzanti, li hanno imparati per esperienza diretta oppure da qualche vecchio “maestro dell'arte” e li applicano con sapiente malizia, spesso sotto l'effetto di droghe. Si, perché anche il criminale ha paura e di solito questi tipi (salvo le dovute eccezioni) non sono certo dei mostri di coraggio e ciò li rende molto pericolosi. Un altro caso tipico.

Siete in macchina, magari per andare al lavoro o ritornando verso casa. Il traffico, i semafori, i motorini che vi zigzagano attorno, sono stressanti, anche se ormai ci siete abituati... Quando, all'improvviso, un auto non rispetta lo stop e vi taglia bruscamente la strada. Frenatona, gran spavento. Suonate e tirate una serie di madonne in direzione di quel disgraziato. Lui naturalmente non vi sente, ma vi vede sbraitare verso di lui e vi risponde con la tipica “alzata” del dito medio.
Ma come? Quell'imbecille ha torto marcio e si permette anche di farvi il dito? Suonate ancora e gli mostrate il pugno, al chè il tipo si ferma, esce dalla macchina e si dirige verso di voi...
Naturalmente scendete anche voi per far valere le vostre ragioni:

«Ma chi ha dato la patente? Non hai visto che stav...».

Non riuscite a finire la frase perché l'altro, senza alcun preavviso, vi tirato uno sventolone di destro in faccia che abbatterebbe anche un bue. Cadete malamente all'indietro e sbattete la schiena e poi la testa sul marciapiede, mentre l'altro vi prende a calci e poi rimonta tranquillamente in macchina e si allontana.
Provate a rialzarvi ma la testa comincia a girarvi, vi sentite le gambe di gelatina e dopo qualche incerto passetto da ubriaco, ricadete di nuovo a terra come un sacco di patate. Se vi va bene vi risveglierete all'ospedale.

Un'ultima scenetta, tanto per completare il quadro. Siete una donna che ha appena fatto la spesa e scendete nel parcheggio sotterraneo, verso la vostra macchina, quando all'improvviso qualcuno vi molla uno scapaccione così violento che vi sbatte a terra. Siete ancora lì doloranti e confuse quando il bruto vi sale sopra e vi da altri tre o quattro ceffoni, poi vi appoggia un taglierino sulla guancia e vi sussurra:

«Se provi a urlare ti ammazzo.».

Sul seguito è meglio soprassedere.

Queste non sono scenette inventate di sana pianta ma sono alcune delle più tipiche e sempre più diffuse aggressioni che accadono tutti i giorni in tutto il mondo. E non sempre finiscono “bene”, a volte l'aggressore non si accontenta dei vostri soldi, del vostro corpo o di una “lezione”, ma può andare oltre.

Meno conosciuti, ma altrettanto sgradevoli, sono gli effetti postumi di un'aggressione. La paura può diventare un nemico che lavora dall'interno per distruggerci e questo succede in in due casi:

a) quando ci logora per una esposizione troppo lunga e ripetuta alla minaccia;
b) quando si trasforma in panico;

Uno degli esempi noti del primo caso è quello dei soldati americani che sono rimasti a lungo sulla linea del fronte in Iraq. Molti tra quelli che NON hanno riportato ferite nei combattimenti,  hanno comunque sviluppato una sindrome post traumatica da stress (P.T.S.D.) che li ha accompagnati al rientro in patria.
L'essere esposti alla minaccia quotidiana degli attentati e dei cecchini, ha determinato in questi soldati alterazioni durature nella personalità e nella sfera emotiva, in grado di compromettere a volte in modo tragico il loro reinserimento nella vita civile. Tra questi reduci, non mancano casi di suicidio, episodi di violenza incontrollata, o il ricorso a droghe. Tali comportamenti sono sicuramente riconducibili alle alterazioni durature nella sfera emozionale determinate in modo cumulativo dal trauma quotidiano.

Senza voler andare troppo lontano, disturbi analoghi possono essere osservati a casa nostra in certe categorie professionali particolarmente esposte al pericolo, come poliziotti, gioiellieri, tabaccai, questi ultimi magari reduci da numerose rapine a mano armata.
Oppure, sempre nella quotidianità più vicina a noi, possiamo imbatterci in casi di violenza protratta ai danni di mogli e figli in situazioni di degrado famigliare o sociale.

Una paura protratta come questa, oltre a danneggiare la sfera psicologica, ha un impatto distruttivo anche sul corpo, determinando, sulla distanza, una miriade di disturbi fisici e malattie vere e proprie. Tra i più importanti ricordiamo i danni all'apparato gastro-intestinale e circolatorio (il cuore in primo luogo), ma anche certi tipi di tumore potrebbero essere correlati a forti stress emotivi sufficientemente protratti.

martedì 15 luglio 2014

Praticare il Gutterfighting.


Il Gutterfighting non è uno sport e non è fitness, ma uno strumento per salvarsi la vita. Tuttavia, attraverso il suo allenamento e la sua pratica è possibile raggiungere un'ottima forma fisica ed acquisire freddezza e coraggio.
Per praticare il Gutterfighting non è necessaria una palestra ma è possibile (e consigliabile) praticarlo all'aria aperta, meglio se in un prato o in un bosco, anche se in caso di brutto tempo è possibile praticarlo in qualsiasi luogo chiuso che sia abbastanza ampio. A questo scopo vanno bene il garage, la cantina, un magazzino, un capannone industriale dismesso o qualsiasi altro posto coperto. Il limite è dato solo dalla nostra fantasia.

Quando, del tutto casualmente, ho iniziato ad apprendere questo metodo, ci si esercitava dalle otto alle ventitré (solamente ad invito, un amico garantì per me) in una chiesetta sconsacrata. I compagni di allenamento erano quasi tutti militari o appartenenti alle forze dell'ordine. Oltre a me e al mio amico, c'erano 3 ufficiali e 5 sottufficiali degli alpini, 3 sottufficiali dei carabinieri, un capitano e due brigadieri della finanza e un altro personaggio di cui nessuno sapeva nulla, se non che era legato in qualche modo al Ministero degli Interni.
L'aspetto inquietante della chiesetta spoglia e diroccata, illuminata solamente da due fotoelettriche, le lunghe ombre dei praticanti e il silenzio quasi totale dei compagni di allenamento, contribuivano a creare un'atmosfera irreale; sembrava di essere in un romanzo di Dumàs!
Il corso era condotto da un capitano degli alpini, molto preparato e competente e tutti eravamo cintura nera in qualche arte marziale, quindi il lavoro era veloce e proficuo. Si sudava molto e si parlava pochissimo e durante le pause si prendevano fitti appunti su un block notes. Il corso, se così si può chiamare, durò all'incirca un mesetto e fu molto intenso poi, così come ci si era trovati, alla fine ci congedammo con una veloce stretta di mano e il gruppo si sciolse definitivamente. Non ho mai più rivisto o risentito i miei misteriosi compagni d'allenamento.
Fu un'esperienza inusuale e per molti versi strana, ma devo ammettere che, per quanto riguarda l'autodifesa, ho imparato di più in quel mese di pratica intensiva che in molti anni di arti marziali.

Appunti presi dal mio primo corso di Gutterfighting, 1992.


Il tipico “passo a goccia” del Gutterfighting (drop-step) è stato studiato per muoversi con stabilità e sicurezza su terra, prati, ghiaia, neve, fango, in mezzo a sassi o mattoni e su qualsiasi terreno sfavorevole. Ecco perché molti gruppi di appassionati, specialmente nelle città, preferiscono allenarsi in aree industriali dismesse.

Anche per l'abbigliamento è concessa la massima libertà. Niente tutine firmate e scarpette da tennis (anche se volendo si può comunque indossarle) e nemmeno divise sgargianti con dragoni e tigri dipinte, ma bastano dei normali pantaloni abbastanza larghi (anche da lavoro o la classica mimetica militare) e una T-shirt. Per le calzature si può usare di tutto, anche se la maggior parte dei praticanti utilizzano scarpe  antinfortunistiche del tipo basso e leggero, per via del puntale in acciaio. Molto usati sono anche i classici anfibi militari... E con questo abbiamo quasi tutto, gli unici altri accessori sono i “pad” (dei cuscinetti imbottiti, sorretti da un compagno d'allenamento, che dobbiamo usare come bersagli dei nostri colpi) ed uno o più manichini. Questi ultimi devono essere rigorosamente auto costruiti e sono una specie di spaventapasseri imbottito, appeso a dei cordini agganciati in qualsiasi punto alto del luogo in cui ci si allena (il ramo di un albero, uno stipite, una trave, ecc...). Normalmente si prende una tuta da lavoro, di quelle di tipo intero usato dai meccanici e la si imbottisce con degli stracci, della gomma piuma o qualsiasi altro materiale morbido. Articolazioni e tronco sono fissate con dello scotch telato (tipo Saratoga o altri), mentre per la testa si utilizza un sacchetto, anch'esso ben imbottito e cucito sulla tuta. Per l'allenamento dei calci si useranno pali, pilastri, tubi verticali o il tronco di piccoli alberi.

Un sistema spartano ed elastico, dunque: nei luoghi, nell'abbigliamento e nell'attrezzatura. I militari e i fanatici del wilderness si divertono a praticarlo nei luoghi più selvaggi e diroccati, preferibilmente col brutto tempo, ma per le persone “normali” è possibile praticarlo in una comoda palestra oppure in un parco o in un prato durante una bella giornata estiva. Ciò che importa è imparare il metodo ed acquisirne la mentalità offensiva.

Tipicamente, la prima lezione si svolge durante l'arco di una domenica pomeriggio, preferibilmente all'aria aperta, e consiste in un misto di teoria e pratica. La prima lezione è la più importante perché è qui che si imparano i principi tattici e teorici del metodo e si acquisiscono le prime tecniche.
Le altre tre lezioni che completano il Corso Base sono molto più orientate al lato pratico, alle tecniche vere e proprie e alla loro applicazione.

domenica 13 luglio 2014

Non si gioca coi coltelli!


In molti corsi di difesa personale e, purtroppo!, in molti video postati su You-Tube da emeriti “maestri” ed “esperti di autodifesa” si vedono un sacco di, mi si passi il termine, stronzate, specialmente nei cosiddetti corsi di "difesa disarmata contro il coltello". In questo post cercherò di mettere in chiaro la (cruda) realtà delle cose.

Il coltello viene usato principalmente da tre tipi di persone: i bulletti, i delinquenti e gli assassini veri e propri. I primi lo usano per mascherare la propria paura e la propria insicurezza. Lo portano con loro per tirarlo fuori allo stadio o per spaventare qualcuno che “si permetta” di contrastarli in qualche modo. Di per sé sarebbero innocui, ma il fatto che abbiano in mano una lama li rende, di fatto, un pericolo mortale. Anche se il coltello non lo sanno usare ed anche se non hanno intenzioni omicide, ogni lama è un arma estremamente pericolosa.
Il corpo umano è pieno di punti potenzialmente mortali: il cuore, il fegato, la gola, i polmoni... Inoltre un coltello può recidere facilmente un'arteria, portandoci alla morte in pochi secondi. Ad esempio la recisione dell'arteria sub-claviale porta alla morte in meno di quattro secondi!

Le uccisioni di questo tipo avvengono per lo più casualmente e il più delle volte l'assassino non aveva, in realtà, nessuna volontà omicida (anche se alla vittima e ai suoi cari questo importerà ben poco!). In pratica l'omicida ha ucciso per un misto di paura, orgoglio, ignoranza ed imbecillità!

In questi casi però è possibile difendersi, usando un misto di prevenzione, comportamento assertivo e de-escalation. Ingoiando un po' di orgoglio sarà possibile portare a casa la pelle in quanto questo tipo di aggressione non è quasi mai predatoria (a meno che non la rendiamo tale noi!).
Dando a Cesare ciò che è di Cesare, ritorneremo sani e salvi a casa nostra.


Ben diverso, invece, è il caso di chi prende un coltello con reali intenti omicidi.

Qui non esiste de-escalation, che tenga! Non basta andarsene o dare all'aggressore ciò che vuole, qui siamo di fronte ad un caso di violenza predatoria estrema.

Proviamo, per un attimo, a metterci nella testa dell'aggressore e scopriremo alcune cosucce interessanti.

In primo luogo, consideriamo la scelta dell'arma.
Un coltello (o una qualsiasi arma da taglio) è uno strumento che ha due caratteristiche particolari: è "ravvicinato” ed è “personale".
Il coltello è uno strumento di caos feroce e brutale. Per usarlo dovete chiudere la distanza con la vostra vittima, arrivare a contatto fisico e poi, violentemente e con estrema determinazione: pugnalare, sventrare, tagliare, sgozzare... Mentre il sangue schizza da tutte le parti, specialmente addosso a voi.
Non è come una pistola, in cui si ha un certo distacco. No, un coltello è quanto di più personale, brutale e spietato ci possa essere.

Quindi, che tipo di "mentalità" comporta tutto ciò?
State andando a “chiudere il conto” con la vostra vittima, in maniera rabbiosa e veloce, con l'inganno, con la sorpresa o semplicemente con un assalto feroce e brutale. Siete determinato, spietato e, molto probabilmente, pieno di odio e di rabbia.
Questa è la mentalità di usa un coltello per uccidere un proprio simile.

State andando a “farla finita” con la vostra vittima e appena lì, comincerete a pugnalare, tagliare, scannare e sventrare con rabbia estrema, pieni di ferocia e di odio. E non colpirete una sola volta, ma ancora, ancora, ancora, e ancora...

Nessuno potrà fermarvi. NESSUNO! Farete a pezzi chiunque provi a contrastare il vostro assalto omicida. Potrete attaccare ripetutamente con tutta la forza, la velocità e la brutalità che siete in grado di metterci. E questo sarà ulteriormente accentuato dalla rabbia e dall'adrenalina.

Voi sapete che dovete farla finita in fretta, altrimenti la vostra vittima riuscirà a scappare. Il vostro attacco sarà un delirio di odio, di rabbia e di intento omicida.
Non userete solo il coltello, ma potrete usare  pugni, calci, morsi, calci, testate, e fare tutto ciò serve per portare a termine il vostro intento omicida, nel modo più feroce e disumano possibile.

A meno che non siate uccisi o disabilitati a titolo definitivo, NESSUNA minaccia o preghiera potrà distogliervi dall'intento di uccidere la vostra vittima.

In realtà, a meno di una disabilitazione immediata, qualsiasi reazione o tentativo di fermarvi sarà inutile.
Siete così carichi di rabbia e di adrenalina che anche se sarete colpiti non sentirete il minimo dolore ed anzi, tutto ciò non farà altro che buttare benzina sul fuoco della vostra rabbia.

La rabbia, l'odio, l'intento omicida e l'adrenalina vi hanno portato a uno stato quasi sovrumano di frenesia e di ferocia!

Anche quando la vostra vittima andrà giù, voi continuerete il vostro assalto omicida e continuerete a pugnalare e pugnalare e pugnalare... Lo prenderete a calci più e più volte. Non vi fermerete fino a quando la vostra esaltazione omicida si sarà placata e la vostra vittima sarà palesemente morta.

Questo è ciò che REALMENTE accade quando un essere umano usa un coltello contro un altro essere umano. Affrontate questa realtà e mettetevela bene in testa.

Troppi istruttori si stanno trastullando col “giochino del coltello” senza nemmeno rendersi conto di cosa la strada abbia in serbo per loro.
Stanno pensando veramente di preparare i loro allievi ad affrontare la realtà di questa violenza estrema e brutale?
O stanno prendendo in giro se stessi e soprattutto gli altri?

Il codice misterioso...


I ladri di appartamento non agiscono mai "a scatola chiusa" ma vanno sempre a colpo sicuro, assumendo il maggior numero di informazioni sulla casa che andranno a "visitare", sui vicini, sui proprietari e sulle loro abitudini.
A parte l'ovvio utilizzo di un "basista" che abiti nella zona, i ladri di alcune popolazioni nomadi ricorrono ad una vera e propria esplorazione in avanscoperta, passando casa per casa con la scusa di chiedere la carità, un contributo per qualche inesistente associazione o la consegna di abiti dismessi.

L'occhio allenato di questi astuti esploratori coglie immediatamente le informazioni essenziali per valutare in primo luogo la convenienza o meno di una "visita" e, nel caso, tutti gli elementi utili per portare a termine felicemente il colpo.
Per passare tutte queste informazioni ai loro complici, gli esploratori incidono uno o più simboli in posizione ben visibile e cioè: sullo stipite, sotto il campanello (o direttamente su di esso), intorno alla porta o sul citofono.

Chi dovrà eseguire il colpo ricalcherà il giro fatto dagli esploratori (con i soliti pretesti) e dando una rapida occhiata ai simboli incisi, capirà subito come comportarsi e come agire.

Un mio vecchio e carissimo amico, appartenente al popolo dei Rom, ha esercitato per diversi anni questo redditizio "mestiere" e qualche anno fa mi aveva fornito una comoda tabella, riportante quasi tutti i simboli usati dai loro esploratori.
Per quanto ne so è ancora perfettamente valida e i simboli sono gli stessi in tutta Italia (e probabilmente anche all'estero). In alcune occasione mi è capitato di trovarli su qualche casa, senza però poter sapere se erano già stati usati oppure no. Forse dopo la "visita" vengono cancellati, ma non ne sono sicuro.
In ogni caso, anche se avete già subito un furto non potrete ritenervi sicuro. Spesso i ladri, vista la semplicità con cui sono riusciti a entrare, ripassano per una seconda (o una terza!!) visitina.

Se vi capitasse di trovare qualcuno di questi simboli a casa vostra, date un'occhiata alla tabella sottostante e capirete subito se è il caso di preoccuparsi oppure no!



sabato 12 luglio 2014

Indirizzi utili per le donne.

Le percentuali di donne maltrattate sono allarmanti: il 31,9% di un campione di intervistate tra i sedici e i settant’anni ha dichiarato di subire violenza; il 4,8% di essere stata stuprata. Inoltre, quando le vessazioni avvengono all’interno delle mura domestiche, perpetrate di norma dal partner, l’omertà sull’accaduto è pressoché totale: le donne non denunciano. Perché?
Per paura delle conseguenze. Molte di loro temono che la situazione peggiori e, cosa gravissima, temono anche di essere giudicate o non credute, perché il più delle volte a seguito di una denuncia non vi è l’adeguata protezione della denunciante: l’uomo non viene messo in condizione di non fare più del male, in quanto i provvedimenti presi nei suoi riguardi non sono né restrittivi né tempestivi.

Questo significa che di frequente, dopo la denuncia, la donna è obbligata a tornare nel luogo in cui subisce i maltrattamenti: resta in attesa che la giustizia faccia il suo corso e, mentre il tempo scorre, l’accanimento su di lei non cessa.

Le botte, gli stupri ripetuti, la violenza verbale, l’insulto, la svalorizzazione sistematica, il disprezzo manifestato in tutti i modi possibili, la clausura forzata, il controllo, tutti questi  comportamenti che violano i diritti fondamentali della persona - anche nelle società cosiddette evolute - sono troppo spesso messi in atto da uomini che sono parte della famiglia della donna. Il meccanismo è talmente pervasivo, e mina in tal modo l’equilibrio psicologico femminile e l’autostima, che non di rado le denunce non partono, la paura sostituisce la rabbia, l’accettazione subentra alla ribellione.

Per quale motivo donne apparentemente “normali”, risolute, continuano a cercarsi partner violenti, che faranno loro del male?

Perché non riescono a spezzare la catena, questa è la risposta. Nel bellissimo libro “Donne che amano troppo” di Robin Norwood, l’autrice, individuando il filo rosso che lega storie di donne apparentemente diversisisme tra di loro, traccia una sorta di profilo psicologico di chi sia più a rischio di subire violenze dall‘uomo che ama, un uomo che abbia “selezionato” tra i tanti che, invece, avrebbero potuto essere dei buoni compagni. Un comportamento autolesionista che ha un’origine sempre nella prima infanzia.

Una bambina che sia stata svalutata e umiliata, che abbia subito o visto subire dalla propria madre abusi da parte del padre o patrigno, una bambina che abbia vissuto nel terrore, o che sia stata ignorata e poco amata, poco apprezzata o costretta a crescere troppo in fretta, avrà due strade da seguire da adulta: riproporre i modelli familiari “malati” che ha conosciuto, perché sa cosa aspettarsi, o cercare di superarli e guarire dalla sue ferite, e allora, comunque, dovrà riproporre lo stesso schema. E così, inconsciamente, la ex bambina violentata, disprezzata, non amata, presa a botte, la ex bambina figlia di padri alcolisti, violenti, deboli, cercherà un partner così, e lo troverà.

Per “salvarlo”, per salvare se stessa? No, perché chi sia stato svalutato da piccolo, interiorizza questo giudizio negativo (”merito” le violenze, “merito” il disprezzo”) su se stesso e senza volere ricrea situazioni in cui può confermare tale giudizio. E’ terribile, ma siamo fatti così.


Per questo esistono associazioni, gruppi di autoaiuto, centri antiviolenza, che sono stati creati e sono a disposizione delle donne vittime dell’abuso maschile. Per tutte coloro che siano stanche di ritrovarsi con uomini che le pestano a sangue, che le umiliano, che le stuprano, che le chiudono in casa e gettano la chiave, ma non sappiamo come fare a uscire dal loro cantuccio di dolore, ecco qualche indicazione utile:

Il sito Vita di Donna offre un’ampia panoramica sui centri antiviolenza in Italia regione per regione, con indirizzi e numeri di telefono.

L'associazione ONLUS Telefono Rosa con il suo team di psicologhe, offre consulenza, aiuto e protezione alle donne e ai loro figli vittime della violenza di partner e familiari.

L'associazione no-profit Doppia Difesa nata dalla collaborazione tra Michelle Hunziker e Giulia Buongiorno opera sul territorio promuovendo inziative per sensibilizzare sul problema degli abusi sulle donne, ma soprattutto fornisce, attraverso le sue sedi sparse in Italia, aiuto e protezione gratuitamente, anche dal punto di vista legale, a chi ne faccia richiesta.

Il primo passo da compiere, però, è riconoscere il problema e ammettere di averlo, senza mentire a se stesse. Spezzare la catena si può!

giovedì 10 luglio 2014

Autoprotezione femminile.

Il problema della violenza sulle donne è molto delicato e complesso. Se ne parla molto ma purtroppo non si può fare a meno di notare una serie di approcci a dir poco discutibili, dettati dalle emozioni del momento, da molta disinformazione e da una mentalità “post-incidente”, più che da un approccio razionale e preventivo.

Troppo spesso l'autodifesa femminile viene identificata con i vari corsi che vengono proposti per insegnare una risposta di tipo "fisico" alla violenza. Purtroppo tale approccio può coprire non più del 10% del problema, inoltre, se si pensa che più del 70% degli episodi di violenza contro le donne avviene nella cerchia delle persone vicine alla vittima o addirittura fra le mura domestiche, una risposta credibile al problema dovrebbe privilegiare altri elementi.

Prima di tutto l'aspetto preventivo: quasi il 90% delle situazioni a rischio
di aggressione può essere risolto in maniera pacifica e  senza rischi
avendo le opportune conoscenze e mettendo in atto i giusti comportamenti.

Legato al discorso sulla prevenzione c'è poi l'aspetto educativo e psicologico che attualmente, sembra più adatto a creare delle vittime predestinate che persone consapevoli e responsabili in materia della propria sicurezza.

In questo Corso Introduttivo, basato su 4 serate, si cercherà di fornire una maggior conoscenza e consapevolezza riguardo all'odioso fenomeno della violenza sulle donne, in particolare quella sessuale, sfatando falsi miti, false idee e false convinzioni.

Si imparerà a riconoscere le caratteristiche e i comportamenti dei potenziali stupratori, come questi agiscono e le condizioni di cui hanno bisogno per portare a termine i loro crimini. Impareremo inoltre a conoscere quali sono i luoghi e le situazioni più a rischio e come rilevare immediatamente un potenziale pericolo.

Le aggressioni non nascono mai dal nulla, non sono “fulmini a ciel sereno” ma l'ultima fase di un processo lungo e articolato, per questo si apprenderanno la dinamica e i rituali delle aggressioni, come queste si sviluppano e come e quando sia possibile e opportuno agire per interrompere questo processo.

Per maggiori informazioni scrivere a: bobinskyincredibile@gmail.com .

lunedì 7 luglio 2014

Vecchio video (non completato) che mette a confronto le tecniche quasi "fiabesche" che si vedono in molte dimostrazioni di arti marziali e di come in realtà si svolgono le VERE aggressioni... ;-)


sabato 5 luglio 2014

Fiore dei Liberi.

Due immagini che ritraggono Fiore dei Liberi in azione, tratte dal bellisimo manoscritto recentemente restaurato dal Paul Getty's Musem di New York City (U.S.A.).


Fiore dei Liberi naque a Cividale d'Austria (oggi Cividale del Friuli) intorno all'anno 1350. Figlio cadetto di una famiglia della nobiltà minore friulana, dopo essere stato istruito nella scrittura e nelle arti, imparò il duro mestiere di cavaliere ed in seguito intraprese la rischiosa carriera del Soldato di Ventura.
Fiore partecipò alle innumerevoli guerre e guerricciole che si svolgevano fra la bellicosa nobiltà germanica e negli ultimi anni della sua carriera "attiva" ritornò in Italia, iniziando così l'attività di Maestro d'Armi (Magistro Scharmidore).
Il Liberi aveva un fisico possente (si dice fosse alto poco meno di due metri) ma, nonostante la sua mole, si muoveva con velocità ed eleganza ed aveva un'innata abilità per il combattimento che affinò ed arricchì in decine di battaglie campali e in numerosi duelli (singolar tenzone).
Dopo qualche anno di attività indipendente venne poi chiamato da Nicolò II, Duca d'Este che lo volle come Maestro d'Armi per se e per i suoi fidi e li rimase fino alla morte che avvenne nell'anno 1420.

Le tecniche che ci ha trasmesso nei suoi manuali (sia con la spada che a mani nude) appaiono estremamente "concrete", semplici e tremendamente efficaci, frutto di una reale ed efficacissima esperienza fatta sui campi di battaglia.
Formidabili ed attualissime le sue tecniche di difesa contro il coltello che nelle prove pratiche hanno dimostrato di funzionare meglio di molte tecniche moderne.
In tutto il suo sistema traspare un fortissimo spirito combattivo: tutto è semplice, istintivo, velocissimo e brutalmente efficace. La difesa, quando c'è, è sempre aggressiva e volta ad una rapida riconquista dell'iniziativa. Ricco di trucchi e stratagemmi, lo stile di Fiore è tutto orientato alla chiusura del combattimento nel modo più rapido e semplice possibile e questo lo rende estremamente attuale ed efficace, molto più che altri metodi ideati nei secoli successivi.

Il metodo di Fiore è stato immesso da poco nelle offerte della nostra scuola.

Arti marziali italiane??

Flos Duellatorium - 1409 (Paul Getty's Museum)

“Principiamo prima in nome de Dio e de Messer sant Zorzo de lo abrazare a pe a guadagnare le prese. Le prese non son guadagnade se le non son cum avantazo”
[Fiore de' Liberi, Magistro Scharmidore. 1409]

Da molti decenni noi leghiamo le cosiddette "arti marziali" all'oriente. Karate, Judo, Ju-jitsu, Kung-fu, Taekwondo, Muhay Thay, ecc. Sono i nomi che vengono in mente quando sentiamo parlare qualcuno di arti marziali.
Adesso vanno di moda le arti marziali miste, o MMA, oppure i sistemi filippini, ma sembra che l'autodifesa a mani nude sia un affare che non ha mai riguardato l'occidente.
Eppure, nelle accademie e nelle sale da scherma, fino al secolo scorso, gli schermidori si esercitavano nella pratica della cosiddetta "lotta a mani nude". Era questa una scuola dal forte sapore conservativo e vitale, composta da colpi sferrati con pugni al petto e al viso o da mazzolate, da calci a falcetto con la punta della scarpa o con il tallone, di prese e strette della lotta come la "rompibraccio" e di azioni finalizzanti in corpo a corpo che andavano dal colpire gli occhi, le articolazioni, fino all’uso dei gomiti e della testa per produrre effetti immediati nell’aggressore.
Nel corpo a corpo tecniche di gambetto, di stramazzo, di capofitto, potevano far precipitare al suolo l’avverso a subire una sfiatata, tecnica di percussione in caduta con le ginocchia sul tronco o sulla testa.
Da dove veniva questa forma completa di lotta e chi l’aveva tramandata fino al secolo a noi più vicino?

La tradizione italiana deriva dalla fusione delle tre grandi culture occidentali (celtica, latina e greca) che sono le genitrici feconde dell’Arte Marziale italiana. Tutti questi sistemi si fusero in quello che ai tempi dell'Impero Romano era il più avvincente spettacolo sportivo e cioè l'Arena dei Gladiatori.
La lotta dell'antica scuola italiana è pratica, temibile, essenziale, finalizzata alla pura conservazione della vita, eppure lo studio conferma la grande scienza pratica che ne dirige i principi e ne delinea le tecniche. Filippo Vadi, magistro pisano, nel suo Trattato del 1485 così ben riassume le finalità tecnico pratiche dell’Arte:

 “Ma ciascuno omo dotto e adottato de bono ingegno, avanza e supedita qualunque sia più robusto di lui e più pieno di forze, iusta illud preclare dictum: ingenium superat vires...”

La scuola antica sarà ereditata e sarà tenuta in somma reputazione dai Maestri del Rinascimento che traghetteranno le conoscenze di generazione in generazione: possiamo ammirare metodiche di combattimento corpo a corpo in tutti i maggiori Trattati del Rinascimento e dei secoli successivi fino ai primi dell’Ottocento.
Conosciamo e studiamo quest’affascinante forma di lotta vitale grazie ai trattati antichi (FLOS DUELLATORUM, 1409 - DE ARTE GLADIATORIA DIMICANDI, 1485) in cui i magistri scharmidori con le loro lezioni ci rivelano e ci tramandano l’Arte di porre fine il prima possibile allo scontro. Così il magistro friulano Fiore dei Liberi ci insegna:

“Lo abrazar vol VII cose: zoè forteza presteza de pìe e de brazi e prese avantazade e roture e ligadure e percussiòn e lesiòn... “

La pratica a mani nude che ci tramanda è fatta di concretezza: dalla posizioni di guardia, nel trovar di braccia per guadagnare le prese ed intercettare le linee nemiche, ai guadagni per entrare nel gioco stretto con un repertorio di azioni che possono incuriosire il più smaliziato marzialista per la loro attualità.

Lo studio approfondito della scuola antica permette di sviluppare, una volta intercettate le linee, una serie di strategie che possiamo così riassumere:

prese avantazade e ligadure, azioni per imprigionare e intrappolare le braccia o le gambe avverse;
le roture, azioni applicate per rompere articolazioni e ossa “deboli” del corpo; 
percussiòn, cioè serie di colpi portati con le mani, gomiti, ginocchia e piedi al corpo del nemico;
lesiòn, cioè tecniche per ledere con pressioni e strizzate parti molli del corpo (occhi, gola, orecchie, genitali, ecc...);
gambaròle, cioè sgambetti di vario genere;
capofitti;
stramazzi, azioni per proiettare, sbilanciare o far cadere l’aggressore in malo modo, prima o dopo averlo colpito.

Così a percussioni schermistiche con pugni al petto e al viso, pugni di stoccata, calci puntati e a falciuola, parate di incontrazione, cedute, arresti in tempo e in quarti, si affiancano tecniche dal sapore antico come distorsioni di dita, distorsioni di braccio, sbassi, svincoli con calcio, gambarole, stramazzi, rompibraccio, girocollo, prese di slogata, balestrate...
Il tutto a restituirci l’immagine di una disciplina che pur nel rigore della sala d’armi persegue il codice antico della pratica a mani nude dal forte sapore autoprotettivo.
La pratica delle Mani Libere, oltre che mezzo per rispondere con la competenza necessaria contro attacchi disarmati, era anche materia per conoscere ed esercitare la salvazione, cioè quell'insieme di strategie e tecniche vitali per sopravvivere ad attacchi di coltello (materia in cui la scuola italiana è tremendamente efficiente).

Dopo che sono trascorsi cinque secoli (di cui quasi due di completo oblio!) è ancora possibile diventare idealmente scholari del magistro Fiore, imparando un metodo di autodifesa elegante e scientifico sul piano tecnico, ma estremamente risoluto e drastico nell’applicazione dell’arte dei nostri avi.

Stress, Paura e Panico.

Esistono varie forme di paura, ma sicuramente l'idea di essere feriti o uccisi da un nostro simile può essere talmente insopportabile, da paralizzare un qualsiasi individuo non preparato.
Si tratta del cosiddetto "stress da combattimento",il quale ha una psicofisiologia particolare, per certi versi unica e non assimilabile ad altre forme di stress, come quello da competizione, per esempio.

Appena il cervello riconosce una situazione di pericolo potenzialmente mortale, le ghiandole surrenali rilasciano un forte quantitativo di adrenalina nel sistema circolatorio.
L'adrenalina è un ormone in grado di produrre intensi cambiamenti fisici, percettivi e psichici tra i quali:

- aumento della frequenza cardiaca e pressione sanguigna
- aumento della sudorazione (correlato allo sfruttamento intensivo delle risorse di energia già immagazzinate dal corpo)
- aumento della frequenza respiratoria (come sopra)
- riduzione della produzione di saliva e di muco (bocca secca)
- aumento della massa e del tono muscolare e della forza fisica
- forte riduzione della percezione del dolore
- dilatazione delle pupille
- richiamo di sangue dalla periferia al centro (estremità fredde)
- aumento della capacità di coagulazione del sangue
- contrazione di muscoli e tendini allo scopo di fare scattare il corpo

A livello psichico e sensoriale, il rilascio di adrenalina nel sangue determina i seguenti effetti:

- riduzione della capacità di ragionamento e di ricordare
- effetto tunnel (riduzione del campo visivo, con perdita della visione periferica)
- diminuzione della percezione uditiva (i suoni sembrano attutiti o ovattati)
- effetto moviola (alterazione della percezione del tempo, visione al rallentatore)
- effetto bianco e nero (alterazione della percezione dei colori)
- disagio legato alla comparsa ed al diffondersi della paura


Lo stess da combattimento, può inficiare pesantemente le prestazioni del combattente, per cui, in presenza di un vero scontro "da strada" (potenzialmente mortale, quindi), anche persone sulla carta preparate (per esempio esperti in arti marziali, praticanti di sport da combattimento) si trovano in seria difficoltà o nell'impossibilità di replicare prestazioni che in palestra riescono senza problemi.
Il problema sembra legato anche alla frequenza cardiaca che, come già detto, aumenta vigorosamente sotto l'effetto dell'adrenalina, ma che provvoca effetti diversi in relazione al suo aumentare.
In pratica, più aumentano i battiti, maggiore è lo scadimento delle prestazioni del combattente.
In un celebre studio di Grossman & Co viene esposto uno schema riassuntivo molto eloquente:

80 bpm - frequenza normale
115 bpm - deterioramento delle abilità motorie fini
145 bpm - deterioramento delle abilità motorie complesse
175 bpm - deterioramento dei processi cognitivi
vasocostrizione
perdita della visione periferica (effetto tunnel)
perdita della percezione profondità/distanza
esclusione uditiva
oltre i 175 bpm:
- reazioni irrazionali di attacco e fuga
paralisi
perdita del controllo di svinteri/vescica
attività motorie grossolane


La cosa più importante da notare al riguardo, è che questi sintomi/effetti sono specifici dello stress da combattimento e non compaiono affatto in altre forme di stress, come per esempio nel combattimento sportivo, o nello sport intenso.
Durante le competizioni, infatti, la frequenza cardiaca può raggiungere e anche superare i fatidici 175 bpm ma non avremo gli effetti che ho elencato sopra.

Questa problematica costituisce un enorme ostacolo per gli istruttori di difesa personale e per tutti quelli che devono formare qualcuno per il combattimento reale.
Il problema è talmente enorme che la maggior parte non se ne occupa affatto e, quelli che lo fanno, il più delle volte se ne occupano nel modo sbagliato.

Riassumendo, per allenare qualcuno ad affrontare lo stress da combattimento, allo scopo quindi di limitare gli effetti negativi della paura, occorre creare delle situazioni di rischio realistiche per l'allievo, al limite del codice penale.
Alcuni istruttori, invece, prendono la scorciatoia di sottoporre gli allievi ad un intenso stress fisico/atletico con esercizi faticosi, frenetici ed intensi fino a scoppiare.
Secondo loro, allenarsi a questo tipo di stress equivale ad allenarsi al combattimento reale (e letale).
Purtroppo non è così, e ancora una volta si rischia di allenare persone destinate ad acquisire false sicurezze, destinate a costar care.

[Fonte: Franco Stevens - forum: tuttosuisistemididifesapersonale]

Quando si cede alla violenza...

Video scioccante - sconsigliabile alle persone impressionabili e ai minorenni! - che illustra una rissa scatenata da "futili motivi" su un'autostrada di Los Angeles (U.S.A.).


Questo dovrebbe insegnare alcune cosette:

a) quando si decide di "fare a botte" si entra sempre in una situazione in cui può succedere di tutto e si apre un intero universo di possibilità dalle conseguenze imprevedibili;

b) in questi casi chi avete di fronte userà qualsiasi arma, espediente, trucco o scorrettezza possibile per farvi del male;

c) se il vostro opponente ha un amico o un complice, questi interverrà SEMPRE in suo aiuto. Scordatevi le parole: correttezza, fair-play ed onestà, queste sono chimere che esistono solo nelle fiabe;

d) non aspettatevi l'aiuto di nessuno. Gli eventuali testimoni non interverranno, principalmente per paura di venire coinvolti o di diventare uno scomodo "bersaglio sostitutivo". Al massimo vi riprenderanno col telefonino, pronti a pubblicare il video su you-tube!

e) finchè rimanete in piedi, avete la possibilità di cavarvela con pochi danni, ma se finite a terra siete finiti. Non aspettatevi che l'aggressore si fermi perchè invece questi infierirà con tutta la ferocia possibile.

Ed ora la fatidica domanda: «Vale la pena buttarsi in queste avventure? O forse è meglio imparare a controllare il proprio ego?» :-)

venerdì 4 luglio 2014

I pugni non funzionano!

Nell'immaginario collettivo il pugno è la nostra arma naturale. Fin dai tempi degli antichi greci la Nobile Arte del pugilato insegna ad usare in maniera razionale e scientifica le nostre mani strette a pugno e ad usarle come arma. Effettivamente, nelle mani di un atleta esperto e ben allenato, questo è vero però (c'è sempre un però a questo mondo!)... Bisogna fare alcune puntualizzazioni.


Per prima cosa la mano (e l'articolazione del polso) non è fatta per essere usata come una mazza, ma per stringere, afferrare, manipolare... Accarezzare! Se vogliamo usare i pugni come arma dobbiamo allenare e “indurire” in maniera sistematica le nostre mani e l'unica maniera per farlo è quella di colpire ripetutamente e sistematicamente un sacco pesante, in primo luogo per allenarci  a trasmettere il nostro peso e la nostra forza in ogni colpo e in secondo luogo indurire la pelle delle mani. Dopo un lungo (e doloroso!) periodo d'allenamento, le fibre ossee di mani e braccia si orienteranno nella direzione dei colpi, rendendoci più efficaci e resistenti.
Senza questo lungo e doloroso “condizionamento” si correrebbe il rischio di spezzarsi (o dislocarsi) una o più falangi oppure il polso... Ma questo pericolo non si potrà mai eliminare del tutto!
Guardate i pugili. Le loro mani sono allenate ed indurite da anni di esercizi di indurimento, sono protette da una generosa fasciatura e da pesanti guantoni imbottiti, eppure l'infortunio di gran lunga più diffuso è la frattura o la dislocazione di mani e polsi.
Quando colpiamo con un pugno le robuste strutture ossee dell'arcata oculare o della fronte la mano subisce uno shock terribile e, anche se questa è ben allenata e “indurita”, quasi sicuramente ci frattureremo perlomeno una falange. Per non parlare se impattiamo con la mano su altre zone “dure”, come ad esempio i gomiti.

Ma c'è un'altra cattiva notizia per i seguaci dell'arte di Fistiana: senza guantoni i pugni sono notevolmente meno efficaci e non riescono a trasmettere pienamente la nostra forza-peso!
Per capire meglio questo apparente paradosso, osserviamo uno dei colpi più efficaci della boxe moderna, il gancio alla mascella. Con i guantoni è relativamente facile da eseguire e non serve mirare con grande precisione: la superficie del guantone rende la nostra mano un “pezzo unico”, una vera e propria mazza e, pur non facendo troppi danni a livello epidermico, riesce a trasmettere pienamente la nostra forza-peso sul bersaglio. In questo caso il risultato sarà un immediato KO dell'avversario.
Senza guantoni il discorso cambia totalmente: se non si colpisce la mandibola con precisione millimetrica, non solo non avremo nessun KO, ma ci ritroveremo con una falange o un dito fratturato. Ma anche nel caso di centro perfetto le probabilità di mettere KO l'avversario saranno drasticamente ridotte.


Gli atleti del vecchio pugilato senza guantoni (Bare-knucle boxing) conoscevano benissimo questo problema ed infatti i ganci erano pressochè inesistenti, inoltre la massima preoccupazione dei pugili era la tutela delle mani.
Anche gli antichi pugilatori romani conoscevano il problema ed usavano proteggersi le mani con delle strisce di cuoio ricoperte da borchie metalliche (queste protezioni erano chiamate “cesti”).

In conclusione, i pugni possono essere usati (con molta prudenza!) solamente dai pugili e da chi ha le mani particolarmente robuste e callose. Gli altri... E' meglio che lascino perdere!
La mano può essere però utilizzata in altre maniere molto più semplici ed efficaci del pugno, specialmente da una persona “media” senza alcun allenamento specifico e ancor più dalle donne. Esistono metodi e tecniche estremamente efficaci e studiati per permettere a chiunque di abbattere qualsiasi avversario, anche se più grande e grosso di noi.
Con queste tecniche particolari, nella Seconda Guerra Mondiale, delle ragazze di 50 kg di peso sono riuscite a mettere KO omaccioni che pesavano il doppio di loro!

I moderni metodi di autodifesa.

Il S.I.A. è sistema di autodifesa “reality-based”, ovvero basato sulla realtà. Per questo motivo la sua filosofia, le sue tecniche e le sue strategie sono diverse dalle arti marziali tradizionali.
Con questo non voglio certo fare spacconate del tipo: «il mio kung-fu è meglio del tuo...» od altre scemenze simili ma puntualizzare, invece, la specializzazione, l'attualità e la scientificità dei moderni sistemi di autodifesa che affrontano il problema della violenza in maniera completa ed esauriente.

Dietro l'apparente semplicità di questi sistemi ci sono, in realtà, profondi studi statistici, medici, biomeccanici e psicologici, oltre che tecnici. Fra le altre cose, vengono presi in esame i vari tipi di aggressione, come nascono e come si sviluppano, i rituali che seguono e i messaggi corporei degli attori, la loro psicologia, ecc. Inoltre vengono studiate le tecniche per evitare, prevenire ed eventualmente gestire tutte le situazioni a rischio nonché le eventuali implicazioni psicologiche e persino quelle legali.

Nelle arti marziali ci si allena nelle tecniche e nel combattimento con i compagni di corso, ma ciò avviene in un ambiente sicuro e controllato. Di solito questo avviene dopo una seduta di esercizi di riscaldamento e quando siamo pronti l'istruttore da il via. Siamo sicuri che il nostro compagno rispetterà le regole, non eseguirà colpi scorretti (ad es. colpi sotto la cintura, dita negli occhi, ecc.) e che se cadiamo o siamo colpiti l'esercizio verrà interrotto, per darci la possibilità di riprenderci e rialzaci.
Ambedue gli atleti indossano delle protezioni (guantoni, paradenti, caschetti, parastinchi, ecc.) e il pavimento è pulito e “morbido”, per evitare incidenti in caso di cadute...
Evidentemente queste condizioni sono distanti anni luce da quelle di una vera aggressione. Prima di tutto questa avverrà quando meno ve l'aspettate: un attimo prima passeggiavate tranquilli pensando alle vostre faccende poi, d'improvviso, vi trovate investiti dalla violenza, dapprima verbale e poi fisica.
In secondo luogo l'aggressore userà ogni trucco, mezzo sleale e scorrettezza possibile per farvi del male. Non ci sarà un arbitro a “dare il via”, ma il cattivo vi colpirà all'improvviso, magari quando parlate o rispondete a una domanda che il furbacchione vi ha fatto col solo scopo di distrarvi.
In palestra nessuno si sognerebbe di spaccarvi una sedia sulla testa o tirarvi un portacenere in faccia. Nessuno vi colpirà in maniera selvaggia quando siete a terra e men che meno qualcuno userà “tecniche proibite” o vi attaccherà con l'aiuto di un complice. In strada, invece, tutto ciò è la norma.


Come potreste reagire quando venite assaliti all'uscita di un bancomat, di un ascensore o in un parcheggio? Come comportarsi quando entrate in un parcheggio sotterraneo e vedete un gruppetto di persone che bighellonano proprio dove dovete passare? Cosa fare quando, dopo un reciproco scambio di gestacci, l'automobilista davanti a voi vi blocca, scende e si dirige verso di voi con fare minaccioso? Cosa fare se vi accorgete che al centro commerciale qualcuno vi segue?
Nelle arti marziali tradizionali questi scenari reali non vengono nemmeno presi in considerazione, mentre i moderni sistemi insegnano non solo come comportarsi correttamente per tutelare la propria sicurezza, ma propongono anche dei “giochi di ruolo” specifici, cercando di coinvolgere emotivamente gli allievi ed allenarli, anche psicologicamente, ad affrontare tutte le possibili situazioni a rischio.
A un “profano” tutto ciò potrebbe sembrare complicato e difficile, mentre in realtà vengono insegnati principi, tecniche e tattiche “standard”, cioè adattabili ad ogni situazione.

Tutti possono imparare a difendersi in brevissimo tempo, indipendentemente dalla loro età, sesso, grado di allenamento e prestanza fisica. Il motto dei moderni “Combatives” è:

“Quello che impari stamattina, potrai applicarlo per difenderti già nel pomeriggio!”